Ritorno a Lecce

Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, particolare dell’interno
Chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, particolare dell’interno
di Francesco GABRIELI (1930)*
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Lunedì 14 Agosto 2023, 11:31 - Ultimo aggiornamento: 15 Agosto, 11:47

Sono tornato a Lecce, alla città paterna e materna, dopo quattro anni dall’ultima visita, ultima d’una serie di visite, di sbiaditi ricordi dell’adolescenza, di evanescenti memorie della prima infanzia. Il campanile del Duomo alto sulla pianura, primo annunziatore della città agli occhi di chi, sporto dal finestrino del treno in arrivo, ne ricerca sin da lontano le note forme; le vie strette e bianche con le case dal largo portone e dall’atrio scoperto; ecco quanto la mia memoria in confusa visione aveva sino ad ora serbato di Lecce.

Gli antichi ricordi

Tornandovi oggi per la prima volta a occhi aperti, avvezzi a fissare d’intorno con curioso affetto gli aspetti dell’arte e della vita, nell’acuto e vano desiderio di portar via con sé per sempre l’immagine d’ogni cosa bella e cara con cui veniamo a contatto, ho avuta la doppia gioia di scoprire per me, in un primo tempo, nella sua modesta bellezza la quieta città salentina, e di ricollocarvi poi, rinfrescati e avviati, gli antichi ricordi. Nella piazza Sant’Oronzo, all’ombra del santo Patrono, ritto benedicente dall’alto della colonna romana, il bambino d’un tempo ritrova il binario semi-interrato del piccolo tram di San Cataldo, considerato come un mirabile punto di partenza per lontanissimi lidi, negli anni in cui il mondo appare tanto più grande; ritrova allineati i caffè e le pasticcerie, gli Alvino, i Cantoro, i Giancane, nomi associati ab antiquo nella memoria infantile ai «confettoni», ai «fruttoni» squisiti, agli agnelli pasquali, vanto della raffinata e quasi orientale industria dolciara leccese.

Il palazzo del Seggio

Ma, addoppiato al bambino, il giovane si sofferma ora per la prima volta dinanzi al Palazzo del Seggio, dalle serene forme di tardo Rinascimento, attraverso le cui vetrate biancheggia il gran Garibaldi del Maccagnani: dinanzi al leone dell’Evangelista scolpito lì a fianco sulla porta del deserto oratorio veneziano, ultima memoria superstite della colonia di commercianti veneti, un dì fiorente in questo tallone d’Italia. Si scende la stretta viuzza (stavo quasi per dire la calle) di San Marco, si passa accanto alla faccia arguta del Fanfulla di Antonio Bortone, aguzzante la spada «contro ogni tradimento, contro ogni viltà», si ricerca poco oltre con ansiosa gioia la gloria barocca di Santa Croce. Il bimbo tace ora, dinanzi alla mirabile mole, e solo l’occhio adulto dell’uomo contempla commosso il trionfo del barocco ascendente dalle sobrie colonne e dal portale di festoni fioriti e ai telamoni della trabeazione, al delirio di foglie e fiori, statue e fregi del fastigio, incornicianti la splendida rosa. La chiesa e il vicino antico convento (oggi Palazzo del Governo), capolavoro anche esso di grafia barocca, formano un quadro impareggiabile, superiore, a mia impressione, alla stessa Piazza del Duomo, e lasciano a lungo col naso in aria il visitatore... Passano i buoni leccesi, guardano il forestiero in contemplazione, e riportano gli occhi con curiosità stupìta sull’oggetto di tanta ammirazione ... – cosa trova costui di nuovo stamane in Santa Croce? – pare che chiedano le loro occhiate scanzonate; ma troppe di queste occhiate, nella sua stessa città e nei più lontani luoghi ha raccolto il turista appassionato per potersene scandalizzare. Solo si sarebbe talvolta tentati di pregare: leccesi, togliete via questi sciami di colombi, che per un mal vezzo di imitazione con la Piazza San Marco, inimitabile, sembrano ormai messi apposta per lordare i monumenti di troppe città d’arte italiane; e soprattutto amateli un po’ più fattivamente codesti monumenti, guardate le pietre vetuste che si screpolano, i busti che si staccano; custodite, salvate questa bellezza tanto esposta a perire per fatalità del tempo e ignoranza e bestialità degli uomini.

I segni del tempo

Non lasciate soli quei pochissimi uomini di buona volontà ma di limitatissimi mezzi, che per dovere d’ufficio o amore disinteressato d’arte difendono il passato augusto contro la brutalità irrompente della vita moderna! Per Santa Croce e le sue sorelle il nome di Lecce è noto nel mondo: non lasciate che per inerzia vostra esso debba un giorno più o meno vicino essere dimenticato! La mia amabile guida sorride alle più vivaci e meno concionatrici parole con cui gli esprimo questi miei pensieri, e mi conduce più oltre, nella bella e triste rassegna di quello che fu e di quel che resta. A questa facciata di palazzo del Rinascimento, degna d’una via fiorentina, corrispondeva un giorno un interno cortile con una loggia leggera e luminosa; tutto sparito, abbattuto, deturpato; quest’altro stupendo spettacolo della Piazza del Duomo, mirabile armonia di chiesa e palazzi secenteschi, poteva, doveva essere completato con l’isolamento del campanile ardito e possente; ed ecco, proprio durante i lavori di sistemazione della piazza, è sorta, nemmeno a farlo apposta, questa casettaccia bianca che si spinge a soffocare l’opera dello Zingarello; e altrove i busti marmorei degli illustrii salentini, dal Galateo al Vanini all’Ammirato al Massa, abbandonati nel giardino pubblico alle esercitazioni balistiche dei monelli, o alle firme e ai cuori trafitti degli innamorati che li decorano, sembrano quasi simbolo di questo doloroso impallidire della antiche memorie di fronte al ritmo vigoroso e accelerato della vita moderna. Eppure io desidero oggi lasciare per un momento in disparte ogni aspetto promettente e provvidenziale della nuova Lecce, quale la necessità e l’attività umana inarrestabili vengon creando, fatalmente agguagliandola a tante altre cittadine odierne, per vagheggiarne con nostalgia di tardo nipote il più genuino e caratteristico aspetto.

La bellezza nascosta

Esso ancor sussiste qua e là nel centro della vecchia città e si svela ancora a chi sappia ficcar l’occhio per le sue vie silenziose, per le capaci finestre di là dai panciuti balconi di pietra o di ferro, per le porticine socchiuse, intagliate entro i massicci portoni dei suoi vecchi palazzi patrizi. Lecce normanna, sveva, angioina è ormai troppo lontana da noi, e troppo pochi sono i residui che ci ha lasciati, come il florido portale dei SS. Niccolò e Cataldo, lì presso i cipressi del Cimitero, perché riusciamo a farcene una chiara immagine. La Lecce che ancora è possibile rievocare è quella del cinque, sei e settecento chiusa ancora entro la cerchia antica delle mura da cui da un pezzo ha straripato, con i suoi trentasei conventi, e le chiese barocche dello Zimbalo e del Cino fresche sale luminose moltiplicanti a ogni passo gli altari dalle tortili colonnine fiorettate, dalle statue di sasso, di cartapesta colorata; placida ricca cittadina vegetante quaggiù in fondo all’Italia «sotto l’ampàro del Re nostro signore e dell’Eroe di nobil prosappia», che pro tempore in Napoli ne teneva le veci. Ma «vegetare» non è esatto neanche per la nostra Lecce spagnola, dove tra conventi e chiese, marzapani e santi in cartapesta pur brillò non smorzata la luce del pensiero; dietro al gran Galateo, e a Scipione Ammirato, nei busti del giardino e nelle memorie locali vive ancora una pleiade di letterati ed eruditi, storici ed economisti, matematici ed ingegneri, che onorano il sei e settecento leccese, per non parlare delle numerose accademie anche qui fiorite sì da giustificare cum grano salis il pomposo titolo di Atene delle Puglie onde Lecce andava fiera. Solo col secolo decimonono essa perde veramente un po’ il passo nel rapido progresso intellettuale e materiale della penisola, e sembra addormentarsi in pigro sonno sotto il fulgido cielo meridionale, in una società borghese pia e raccolta, attaccata alle vecchie tradizioni, incastrata nel guscio della piccola patria diletta, alternante il soggiorno fra l’avita casa leccese e la casina di campagna, cui trasportava lo «sciarabà» sobbalzante sui lastroni del lastricato cittadino, scorrente silenzioso per le bianche strade assolate fuori le porte... Piccolo mondo antico pugliese, fatto di gentilezza e pietà, signorilità e attardata dottrina umanistica; innocenti pettegolezzi e tante sconosciute virtù familiari, di quelle famiglie i cui nomi raccogliemmo bambini nei ricordi della nonna e della mamma, e ancor oggi, a sentirli talora riecheggiare nei tempi mutati, ma cui ci pare di avere assistito come un confuso sogno di puerizia lontana. 

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