I ninfei e altri luoghi di delizie e di sollazzi nella Lecce rinascimentale e barocca

Il ninfeo delle fate
Il ninfeo delle fate
di Giacomo MAZZEO
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Giovedì 3 Agosto 2023, 18:03 - Ultimo aggiornamento: 4 Agosto, 13:27

Tra i luoghi più misteriosi e intriganti di una Lecce d’altri tempi s’impongono, in modo particolare, i ninfei delle Fate e di Fulgenzio.


Il fascino del primo si avverte già dalla sua posizione, al di sotto della cinquecentesca Masseria Tagliatelle, a ridosso di una delle antiche e verdeggianti cave di Marco Vito. Sopra l’architrave della porta di accesso si percepisce la presenza di un’iscrizione, non più leggibile, in un riquadro sorretto ai lati da due putti alati, sovrastato da due sagome di stemmi del tutto corrosi. Di questa epigrafe Francesco Tummarello nel 1925 riuscì a decifrare le sole parole nimphis et e pomo, che rimandano, la prima, alle ninfe e, la seconda forse a Pomona, dea dei giardini e degli alberi da frutto. In uno dei due scudi il Tummarello intravide due torri e, nell’altro, un leone rampante. Figure araldiche che, richiamando rispettivamente al blasone dell’illustre Scipione di Somma, governatore della Provincia di Terra d’Otranto dal 1528 al 1542, e a quello della sua consorte, Ippolita Monforte, con ogni probabilità individuerebbero costoro come i nobili committenti.

L'aula scavata nella roccia


Nell’aula rettangolare d’ingresso, tutta scavata nella roccia, colpisce la presenza di ben sei figure femminili scolpite nel sasso a mezzo rilievo e a grandezza naturale: sono le ninfe Nereidi, le protettrici delle acque, non le Fate immaginate nella fantasia popolare e fascinosamente impresse nel nome del luogo. Sono raffigurate come leggiadre fanciulle, con il capo di poco reclinato trasversalmente, che indossano lunghe vesti ben panneggiate e strette alla vita. Peccato che siano per lo più mutilate alle braccia e sfregiate al petto e al viso. Esse sono peraltro intramezzate da quattro nicchie solitarie di forma semicilindrica, nei cui catini si ammirano armoniose incisioni di viticci e di valve di conchiglia.


Nel primo angolo a destra spicca un capitello pensile con foglie acquatiche. A sinistra, sotto un catino decorato a grottesche, si apre un piccolo corridoio che conduce al vero e proprio ninfeo: una stanza perfettamente circolare con una volta a campana con sfogatoio centrale, impostata su una deliziosa cornicetta dentellata a mensolette. Questo vano, al pari di un frigidarium termale, appare contornato da un sedile continuo e circuente in pietra, con le tracce sottostanti di un canaletto in cui si drenavano le acque che un tempo riempivano una vasca centrale ormai inesistente. Di fronte al corridoietto d’ingresso, sulla parete ricurva si scorge la traccia di un cartiglio ora illeggibile.
Non meno incantevole è il ninfeo di Fulgenzio, sorprendentemente rimasto “segreto” fino all’aprile del 1990, quando fu segnalato per la prima volta pubblicamente con un apposito saggio a firma di chi scrive.
Esso si sviluppa al livello di una cava-giardino come il precedente, al di sotto del Palazzo, ora sede della Biblioteca “Roberto Caracciolo” e della Pinacoteca francescana: originariamente costituiva il fulcro della splendida villa rinascimentale che il ricco aristocratico Fulgenzio della Monica costruì fuori le mura intorno alla metà del Cinquecento.


Il primo vano funge da vestibolo d’ingresso, chiuso da una bella volta a botte lunettata, lungo il cui piano d’imposta corrono, l’una sopra all’altra, due deliziose fasce decorate a foglie d’acqua e a scanalature intramezzate da una modanatura continua. Due piccole ricurve vasche angolari dai bordi finemente lavorati rimpiangono la freschezza delle acque che un tempo vi si riversavano. Quel che più attrae è il tramezzo monumentale in pietra leccese, a tre porte centinate, che, scenograficamente rivestito di originalissime bugne a punta di diamante fasciate da quadrifogli delicati, si staglia dinanzi come un’imponente iconostasi o come il frontescena tipico dei teatri ellenistici e romani. Un così articolato prospetto con tre aperture arcuate a tutto sesto sembra ispirato, come intuito dallo studioso Mario Cazzato, a un’incisione riportata nel noto volume Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499), nella quale sono disegnate le tre porte di una grotta come accessi simbolici che conducono, nell’ordine da sinistra a destra, verso la «Gloria di Dio», la «Madre dell’Amore» e la «Gloria del Mondo».


Una volta oltrepassato questo stupefacente diaframma divisorio, come per incanto si schiude uno spettacolo di insolite meraviglie: una grande stanza a pianta pressoché trapezoidale, ricavata tutta nel banco roccioso, con una vasca centrale e, sulla parete di fondo, tre nicchie. Negli incavi emisferici superiori si ammirano le valve pecten elegantemente scanalate a raggiera che sovrastano i mascheroni consumati: da qui sgorgavano un tempo le freschissime acque raccolte in vasche di fontana di cui restano le sole tracce d’incastro. Strabiliante è l’ancor ricca e diffusa ornamentazione con conchiglie naturali, sebbene in buona parte perduta: sulle pareti laterali, agli angoli e sui pilastri interni delle porte simula a fatica, assieme a foglie e rosette di terracotta smaltata e a schegge di madreperla, i pilastri di un finto portico con un raffinato architrave a motivi esagonali; sul soffitto piano, invece, tra riquadri e fregi decorativi, delinea, come le tessere di un mosaico, non solo alcune raffigurazioni allegoriche, quali un’aquila bicipite, una sirena a due code, una probabile chimera, un quadrupede fantastico montato da una figura umana e un satiro barbuto dalle orecchie caricaturali, ma anche, al centro in corrispondenza della vasca, un’elegante raggiera all’interno di una calotta scavata nella roccia. Ai due angoli superiori lontani dalle porte si adagiano due pregevoli motivi a fogliame rivestiti di conchiglie, non dissimili dalle foglie d’acqua che adornano il ricordato capitello pensile del precedente ninfeo.

Il vestibolo


Nel complesso ninfeale rientra pure un vano adiacente al vestibolo, coperto da una splendida volta a padiglione, con la funzione, forse, di una sorta di tepidarium stante la presenza di un camino.
Le caratteristiche fin qui descritte dei Ninfei delle Fate e di Fulgenzio non si comprenderebbero appieno se non venissero inquadrate nella funzionalità tipica di tali grotte artificiali all’interno delle ville rinascimentali. Questi piccoli antri dedicati alle Ninfe altro non erano che luoghi di delizie e di meditazione, il più delle volte costruiti nella roccia sulla falsariga dei ninfei ellenistico-romani, in cui i ricchi padroni amavano ritirarsi nelle giornate più torride dell’anno per godere della freschezza dell’ombra e delle acque e intrattenersi in piacevoli conversari con i propri amici, tra ricche decorazioni simboliche, di prevalente ispirazione classica e mitologica, e stupefacenti combinazioni tra la natura e l’artificio. Luoghi, quindi, di distensione per il corpo e per la mente, sempre aperta alle riflessioni filosofiche e ai richiami alla cultura classica greca e romana, tra le amenità della natura trasformata secondo un radicato modello umanistico e un rinnovato interesse per l’antichità.
Non è da escludere che siano divenuti pure teatro di divertimenti più o meno pudichi tra zampilli e giochi d’acqua.
Il tutto, sullo sfondo di giardini rigogliosi come quelli che ravvivavano le ville cinquecentesche del suburbio leccese.

Particolarmente lussureggiante doveva essere il parco della villa di Fulgenzio Della Monica, se Giulio Cesare Infantino nel 1634 ne segnalava, nella sua Lecce sacra, i «belli, e spatiosi giardini d’aranci quasi foltissime Selve, e d’altri frutti ancora, delitiosi oltre modo per l’artificiose fontane, e freschissime grotte», peraltro accessibili a chiunque, in quanto «per diporto, e rinfrescamento di tutti quelli, ch’in tempo d’està dalla Città per loro piacere vi concorrono».

La villeggiatura fuori le mura


A Lecce, già i conti di Lecce e principi di Taranto del Balzo Orsini furono precursori della villeggiatura fuori le mura, nella solarità mediterranea della fertile campagna leccese. Secondo la tradizione essi e, in particolare, Maria d’Enghien disponevano di un proprio ninfeo nei pressi della Torre di Belloluogo: la «Gropta de lo solaczo de lo signuri», citata in un inventario del 1472 e identificabile nella vicinissima grotta basiliana, di epoca altomedievale. Non è un caso che proprio questa risulti da tempo denominata Ninfeo. È, quindi, immaginabile che, a seguito di una rifunzionalizzazione dell’ambiente, gli illustri padroni vi si recassero per sollazzarsi e rinfrescarsi durante le calde giornate estive.


L’archetipo dei ninfei leccesi dovette, tuttavia, essere probabilmente quella grotta che, intorno al 1419, Giovanni Antonio del Balzo Orsini fece inglobare nel complesso della Torre del Parco, in prossimità della chiesa di San Giacomo. Nel 1685, l’Abate Giovan Battista Pacichelli, in visita a Lecce, fu, tra l’altro, colpito da tale antro e, in particolare, dalla presenza di «piccioli, e galanti specchi quasi Mosaici» sia sulle pareti che sul soffitto. Su quest’ultimo egli rilevava, sul petto di un’aquila e sopra una cometa (evidente omaggio allo stemma della famiglia del Balzo), l’iscrizione, a caratteri maiuscoli: cvm fonte, et antro dominvs frvetur/ottomani svperbia occidet, con la quale veniva messo in chiaro che, quando il padrone avesse goduto della freschezza delle acque della grotta, la superbia dei turchi sarebbe stata spenta. Anche nel 1729 l’alcantarino Casimiro di Santa Maria Maddalena segnalò, di questo antro, la diffusa ornamentazione con «cocci», comprese la cometa e l’epigrafe di cui sopra, oltre alla significativa circostanza che fosse comunemente chiamato «il Paradiso».
Purtroppo, non è possibile da oltre un secolo ammirare da vicino questi mosaici: secondo la testimonianza di Amilcare Foscarini, in occasione della trasformazione intorno al 1901 dell’antico Convento di San Pasquale nella sede del Manicomio Provinciale, la grotta del Parco, «tutta tempestata di conchiglie di S. Giacomo», è andata disgraziatamente distrutta.
La stessa fine hanno subito pure, una sessantina di anni fa, due grotticelle scavate nella roccia, con le tracce di un antico sistema idrico di rinfrescamento, nell’ormai scomparso giardino della villa di Giovan Camillo della Monica, fratello del ricordato Fulgenzio.
Nel solco di una così radicata tradizione “ninfeale”, è stata probabilmente sfruttata per bagni estivi l’ampia e suggestiva piscina di acqua sorgiva venutasi a creare in una piccola cava di pietra scavata al di sotto di una delle cantine del cinquecentesco Palazzo Adorno.


Un altro incantevole ipogeo, emblematico dell’antica consuetudine locale volta a trarre dal sottosuolo il massimo delle utilità, è la cisterna-ninfeo tuttora visitabile all’interno del complesso degli olivetani.
L’Infantino scriveva, nel 1634, nella sua citata opera, che in mezzo ai due «sontuosissimi chiostri» del monastero «vedesi una famosissima Cisterna al vivo sasso intagliata, alla quale, nel tempo dell’està, scendendovisi facilmente per una commoda scala di pietra, sì per l’ampiezza del vase, come anche per la freschezza, porge a tutti non picciolo diletto, e piacere in maniera, che i gentil’huomini di questa Città in tal tempo vi concorrono ben spesso a goderla».


Anche in questo caso si tratta di una piccola tagghiata, scavata per l’estrazione di parte dei blocchi di pietra leccese necessari per la costruzione dell’edificio conventuale, riadattata intelligentemente dagli olivetani come una capiente cisterna in cui potersi anche sedere, per goderne la frescura tra amene conversazioni. La descrizione dell’Infantino dimostra peraltro come essa sia stata non un luogo chiuso, riservato ai soli olivetani, ma da costoro aperto al pubblico e, in particolare, ai nobili leccesi, per soddisfarne il bisogno di relax in un posto fresco e tranquillo nelle giornate più calde dell’anno.


Sull’esempio di tale cisterna, anche quella, finora inedita, sottostante il meraviglioso “pozzo barocco” di Giuseppe Cino che adorna il cortile dell’Antico Seminario offriva «utilità e diletto»: non solo un’abbondante riserva idrica attraverso due invasi comunicanti, ma anche, a mezza altezza del più piccolo di questi ultimi, un gradevole refrigerio per chi avesse avuto la possibilità di scendervi per una comoda scala e di sostarvi su lunghi sedili appositamente ricavati nelle pareti rocciose lungo un corridoio circuente protetto da un parapetto.
A distanza di tanti secoli, questi antichi superstiti luoghi di delizie, pur se in parte deteriorati dalle ingiurie dell’uomo e del tempo, ancora oggi affascinano. E questo non solo perché sono stati suggestivamente scavati nella roccia e talvolta dotati, come i ninfei delle Fate e di Fulgenzio, di straordinaria valenza artistica, ma anche perché la loro originaria destinazione d’uso rivela uno spaccato inimmaginabile degli ozi e dei sollazzi estivi dei leccesi tra il Quattrocento e il Settecento.

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