Tito Schipa. Dalle Scalze al Metropolitan

Tito Schipa. Dalle Scalze al Metropolitan
di Giorgio MANTOVANO
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Giovedì 10 Agosto 2023, 18:48 - Ultimo aggiornamento: 11 Agosto, 20:56

Ero a gustare un buon aperitivo con Carlos e Maria, una coppia di amici spagnoli giunti da pochi giorni nel Salento, quando a un tratto, nel locale che si affaccia in Piazzetta Carducci, nella Lecce antica, dallo stereo si è diffusa nitida la sua voce. Intonava Vivere, la canzone scritta da Cesare Andrea Bixio nel 1937. Abbiamo smesso di conversare. La musica e quel timbro vocale li avevano fatti ammutolire, sedotti dalla stessa sensazione di stupore di chi, in ogni angolo del mondo, nei teatri più famosi, lo aveva ascoltato. “Canta in modo divino, ma chi è?”, ha chiesto Carlos. “È Tito Schipa”, ho risposto senza indugio. Volevano saperne di più. Di fronte a tanta simpatica curiosità, ho provato a riannodare i fili della memoria.

Chi era il grande tenore

“Seguitemi, facciamo una passeggiata, voglio raccontarvi la sua storia”, ho detto, suscitando in loro non poca sorpresa. Abbiamo lasciato alle spalle l’austera bellezza di quella piazzetta in cui a partire dal 1852 la scuola, all’epoca diretta dai Padri Gesuiti e denominata Regio Collegio di San Giuseppe, in omaggio al fratello di Napoleone, fu elevata al rango di Liceo, poi intitolato all’economista Giuseppe Palmieri, una delle più illustri figure dell’illuminismo salentino. Ci siamo diretti verso lo scenografico quartiere delle Scalze. Quel luogo di antica memoria, chiamato così per la presenza del convento delle Carmelitane scalze, ha al suo centro l’omonima chiesa sul cui frontone si staglia la statua dell’Arcangelo Michele che sconfigge il demonio e, sotto l’architrave, in un plastico fregio, vive il duello biblico tra Davide e Golia. Abbiamo percorso lentamente quella che, un tempo, fu via De Angelis, celebrata da una struggente poesia di Vittorio Bodini che vi visse in alcuni dei suoi anni leccesi al numero 33. Poi, arrivati in piazzetta Mariotto Corso, abbiamo imboccato lo strettissimo vico del Sole, dove finalmente si affaccia vico Dei Penzini. Qui, al numero 6, il 27 dicembre 1888, nacque Raffaele Attilio Amedeo Schipa, detto Tito, destinato a divenire il più grande tenore di grazia del ventesimo secolo. In questi luoghi, all’epoca poverissimi, con le case addossate le une alle altre, Tito mosse i primi passi. Il padre Luigi arrotondava il modesto stipendio di guardia daziaria con i pochi guadagni di una piccola bottega da falegname. La madre, Isabella Vallone, detta Antonietta, donna devota e religiosissima, dedicava i suoi momenti di libertà alla preghiera.

L'amore per il canto

Tito, come dirà più tardi, non era incline allo studio. L’unica materia che amava era il canto. Giovanni Albani, il maestro di canto corale negli anni di scuola elementare, fu il primo a percepirne le straordinarie capacità e a segnalarne la bravura al vescovo, monsignor Gennaro Trama, che si prodigò per farlo entrare in seminario. Nel luglio del 1902, appena quattordicenne, Tito vide per la prima volta il suo nome citato dalle cronache cittadine. “La Provincia di Lecce”, periodico tra i più letti, decantò un suo assolo. Albani, orgoglioso, ne parlò a colleghi e amici, invitandoli ad ascoltare quel ragazzino quando cantava in cattedrale, dove la sera si svolgevano le relative funzioni. Fu così che un giorno Tito incontrò lo sguardo di Alceste Gerunda, stimato insegnante di musica. Anche per lui quella voce fu una rivelazione. Il giovane allievo lasciò il seminario per dedicarsi unicamente allo studio del canto, sotto la guida di quell’inflessibile maestro. Raccontavo tutto questo mentre, nel silenzio della sera, in piazzetta Arte della stampa, provavamo a districarci in quel groviglio di vicoli che sa di poesia. Gerunda fu come un padre per Tito. Vi esercitava una rinomata scuola di canto. Nelle sere d’estate, quando il giovane modulava le prime romanze, si riuniva per strada una folla rapita dalla sua dolcissima voce. Era facile che quel luogo si trasformasse in un piccolo teatro, animato dai primi applausi. Negli anni 1906-1908 i suoi studi furono intensissimi.

Il Paisiello e la prima "serata" di Schipa

Ai primi del febbraio 1908 venne annunziata una «serata musicale danzante» nel Teatro Paisiello con la partecipazione del giovanissimo tenore leccese. L’evento fu menzionato da “La Provincia di Lecce”, periodico diretto dallo scrittore e giornalista Nicola Bernardini che – con la moglie, donna Emilia Macor, scrittrice dalla classe innata – aiutò non poco gli esordi leccesi del giovane Schipa. Con quell’incasso, che Tito non dimenticherà mai, poté perfezionare gli studi a Milano, sotto la guida di Emilio Piccoli. Con Carlos e Maria eravamo, nel frattempo, giunti ai piedi della chiesa di San Matteo, che il Gregorovius aveva definito il «Pantheon del barocco leccese». La loro curiosità era oramai vivissima. Incalzato dalle tante domande, ho provato a raccontare in poche parole il travolgente successo di Tito Schipa nei principali teatri italiani e in giro per il mondo.

L'invito al San Carlo di Napoli

Dopo il debutto nel 1909, appena ventenne a Vercelli con La Traviata, nel 1914 era stato invitato al Teatro San Carlo di Napoli, città in cui da poco si era trasferita la sua famiglia. L’anno successivo era a Milano, prima diretto da Arturo Toscanini al Dal Verme, poi alla Scala, dove si esibirà, in seguito, più di cento volte. “Ha mai cantato in Spagna?”, ha chiesto, interessatissima, Maria, docente di filosofia a Madrid. “Sì, certo”, ho risposto, “nel 1917 si esibì a Madrid, alla presenza di re Alfonso XIII di Borbone e della regina Eugenia Vittoria di Battenberg. Dalla regina ricevette preziosi regali e dal re la Commenda spagnola. Nel corso della sua lunghissima carriera, Schipa cantò ancora a lungo in Spagna, incidendo numerosissimi tanghi e canzoni entrate nel cuore degli spagnoli come “Ay ay ay”, “Amapaola” e “Valencia”, e composto musiche come “El Coquetón” e “El gaucho”. Offrì al pubblico del Teatro Real di Madrid indimenticabili esibizioni in “Tosca”, “Barbiere di Siviglia”, “Rigoletto” e “Manon”. Seguirono importati amicizie con Salvator Dalì e Luis Buñuel. Non a caso, come ha ricordato Gianni Carluccio, scrupoloso biografo e curatore dell’archivio Schipa, nella celebre “Casa Milà” progettata da Antonio Gaudí, sul grammofono a tromba venne posato un disco a 78 giri con un’Ave Maria, da lui mirabilmente interpretata”. Mentre richiamavo fatti ed eventi che lo videro protagonista, lo sguardo di Carlos e Maria era oramai letteralmente rapito. Abbiamo attraversato a passo veloce piazza Sant’Oronzo, diretti verso l’antica bellezza della Basilica di Santa Croce, dove avevo pensato di narrare l’epilogo di quella incredibile storia.

Poi arriva il Metropolitan

Tito Schipa fu scritturato stabilmente prima a Chicago, dal 1919 al 1932, e più tardi al Metropolitan di New York, dal 1932 al 1935 e nel 1940 e 1941. La sua attività lo vide impegnato fino al 1963 e presente in Russia, negli States, in Sudamerica, in Israele, in Sudafrica, a Singapore, in Australia ed in molte nazioni europee. Al termine di quella carriera straordinaria, aprì una scuola di canto a New York, dove si spense il 16 dicembre 1965. Il 3 gennaio dell’anno seguente si celebrò a Lecce il suo solenne funerale. Quel giorno, ho raccontato agli amici spagnoli, la città gli decretò gli onori del trionfo senza precedenti.

Il saluto della sua città

Il corteo funebre si snodò per circa due chilometri. La bara, posta su di un lussuoso carro scortato da carabinieri e vigili in alta uniforme, fu seguita dai parenti, da tutte le autorità civili e religiose, e da una folla immensa, affranta e commossa. Se Tito avesse potuto vedere quello spettacolo di folla, avrebbe sicuramente dimenticato le tante amarezze della vecchiaia, le rinunce e le sofferenze degli ultimi anni. In piazza Sant’Oronzo, quando la bara fu deposta su un panno nero, accadde un evento memorabile. Parve a tutti che egli salutasse la sua gente quando dagli altoparlanti fu diffusa la sua voce registrata che cantava, in modo sublime, l’“Ave Maria” di Schubert. In essa si coglieva la profonda fede e devozione dell’artista. La commozione fu unanime, rotta a tratti da un pianto corale. Il corteo raggiunse poi la Basilica di Santa Croce ove il parroco officiò il sacro rito mentre il coro del Teatro Petruzzelli di Bari eseguiva l’accompagnamento funebre. Maria e Carlos osservavano, emozionati, la plastica esuberanza della facciata, dove il genio di quel Cesare Penna, scolpito nel secondo ordine, si era sbizzarrito. Provavano ancora una volta a immaginare quel ragazzino che con la sua voce da usignolo, dalle Scalze, aveva conquistato l’immortalità.

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