La porta battezzata, la storia urbana inventata e l’ebreo convertito (forse)

La porta battezzata, la storia urbana inventata e l’ebreo convertito (forse)
di Mario CAZZATO
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Lunedì 31 Luglio 2023, 17:15 - Ultimo aggiornamento: 17:45

Chissà cosa avrà pensato di Lecce lo scozzese Crauford Tait Ramage quando nella tarda primavera del 1828 la visitò nel corso del suo solitario viaggio “In South Italy”. È pur vero che aveva interesse, tra l’altro, di raccogliere «modern superstitions», ma quello che aveva visto e sentito era troppo: alcuni tizi chiedevano l’elemosina con appeso un cartello con l’enigmatica ABRACADABRA per proteggersi, dicevano, dalle malattie. E aveva visto un gruppo di donne da marito che con grosse mazze di legno colpivano i piedi di una statua di san Giuseppe custodita nel monastero degli olivetani. Credevano che, così facendo, avrebbero incrementato con l’aiuto del Santo le possibilità di sposarsi. E che dire di quella monaca domenicana che dalla sua clausura aveva avuto l’ardire di chiedere al suo vescovo, il terribile Pappacoda, licenza di ballare la tarantella per due giorni – trattamento raccomandato dai medici – con tanto di musici. E che pensare di quell’altra monaca, sempre domenicana, Giacinta Penna, sorella di un grande scultore, che da moltissimi anni risultava inferma e «tenuta per spiritata», all’improvviso guarì dopo essersi «raccomandata caldamente» a sant’Oronzo.


Per parte nostra non ci meraviglieremo più di tanto quando di fronte a una delle quattro porte della città, quella di Rugge, Ramage scrive che «questa fu la cosa che maggiormente mi interessò a Lecce perché era quella dalla quale partiva la via che conduceva all’antica Rudiae che dette i natali al celebre poeta Ennio».

Credenza antichissima questa della via sotterranea, la Malenniana (da Malennio, mitico fondatore di Lecce) che però partiva dalla piazza pubblica e sbucava proprio vicino alla nostra porta, per proseguire, sempre sottoterra e per alcune miglia, alla messapica Rudiae, patria – e quasi tutti sono concordi – del già citato Quinto Ennio, padre della letteratura latina. Ma quale versione della porta ammirava, in quel 1828, il viaggiatore scozzese? Ammirava certamente quella ricostruita nel 1703 e nel 1656 benedetta e dedicata dalla città e dal Pappacoda al nuovo protettore cittadino, sant’Oronzo. Porta sormontata dal medesimo protettore, benedicente e affiancato, in una posizione secondaria, dalle statue di san Domenico e di sant’Irene, l’antica protettrice spodestata proprio quel 1656. Sopra i capitelli delle quattro colonne sono raffigurati con tanto di epigrafi esplicative – così da non aver dubbi – i quattro eroi della preistoria leggendaria di Lecce: da sinistra Euippa, Malennio, Dauno e Idomeneo che avrebbe dato il nome a Lecce. Secondo la leggenda, Malennio era figlio di Dasumno, figlio di Sale, a sua volta figlio del re di Creta. Suoi figli erano Dauno ed Euippa e quest’ultima sposò il cretese Idomeneo.


Allo scozzese difettavano gli strumenti per accorgersi che questa favolosa genealogia poggiava unicamente su sporadiche affermazioni di geografi antichi e soprattutto era stata «aggiustata» e ampliata dagli umanisti locali, in primis il Galateo e soprattutto il Ferrari della cinquecentesca “Apologia Paradossica”. Ed è da quest’ultima zoppicante fonte che l’ignoto estensore del programma iconografico di questa facciata trae la successione cronologica della città che, a suo parere, «aveva […] per suo padre ed edificatore re Malennio». Si arrivò addirittura a identificare la reggia di Idomeneo, nel punto in cui nel XV secolo fu innalzato un monastero di domenicane: fantasia pura scatenata da un’epigrafe latina rinvenuta in quel luogo. Leggende che dovettero, comunque, affascinare il nostro viaggiatore che, forse, aveva letto qualche edizione del romanzo francese di Fénelon, ossia “Les avventures de Telemaquè”, in parte ambientato, con Idomeneo e altri eroi, proprio dalle nostre parti. Ma una circostanza al cospetto di questa mirabile porta “parlante” il Crauford non poteva sapere. Non sapeva, infatti, che nei pressi sbucava la via Malenniana – appunto da re Malennio – che dalla piazza, sotterranea, portava dopo qualche miglio a Rudiae (Rusce o Rugge) «fatta per artificio umano per la quale in tempo di guerra l’una città all’altra scambievolmente» si aiutavano. Soprattutto non conosceva la leggenda di Giovanni D’Aymo che, scrive il Ferrari, travisando i fatti, verso il 1385 seppe di «un gran tesoro nascosto» nella piccola cappella suburbana di sant’Oronzo.
Il santo aveva rivelato tale nascondiglio a un forestiero che si fece aiutare nell’impresa del ritrovamento dal «portiero» di porta Rudiae, che era proprio il D’Aymo. E mentre si scavava, il figlio del D’Aymo, per impossessarsi del tesoro, con una pietra uccise il forestiero. Ma Giovanni, «compunto dallo spirito di coscienza», per riparare a tale sacrilegio, destinò tutto quel tesoro all’edificazione, proprio dietro la nostra porta, di un convento di domenicani sotto il titolo di San Giovanni Battista e accanto, e poi di fronte, di un ospedale dedicato allo Spirito Santo. La realtà è diversa, ma la sostanza non cambia.

Giovanni D’Aymo era un ricchissimo commerciante leccese, forse un ebreo convertito. Nel suo testamento del 1394 egli dispose che gran parte della sua eredità fosse destinata all’edificazione di convento e ospedale. Come effettivamente avvenne. Un benefattore tanto prodigo che qualcuno lo ha addirittura appellato, fino a poco tempo fa, “san” Giovanni D’Aymo. E ancora oggi, oltrepassando porta Rudiae, subito alla nostra destra troviamo il complesso – chiesa e convento – dei domenicani, mentre alla nostra sinistra la lunga mole cinquecentesca dell’ex ospedale dello Spirito Santo, ora sede della locale Soprintendenza.

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