Una chiave, un cipresso e la bambagia prodigiosa di sant’Irene

La chiesa di San Bernardino Realino
La chiesa di San Bernardino Realino
di Giovanna FALCO
12 Minuti di Lettura
Lunedì 14 Agosto 2023, 13:06 - Ultimo aggiornamento: 15 Agosto, 11:47

Può succedere di essere incuriositi da un particolare, approfondire l’argomento e venire a conoscenza di stralci di vita appartenenti a una comunità, ormai caduti nell’oblio. È il caso della chiave, su cui è cesellato lo stemma di Lecce, riposta nella teca in cristallo che custodisce le reliquie di san Bernardino Realino (1530-1616) nella chiesa del Gesù. Chiave stilisticamente riconducibile a quelle che si adoperavano per le serrature del XVII secolo. Il motivo della presenza della chiave nella teca dovrebbe essere chiarito dal testo della lapide affissa nella stanza dove morì il sant’uomo, situata di fianco alla chiesa, dov’è menzionata la consegna delle chiavi di Lecce a padre Bernardino morente, per far sì che la città ricevesse la sua protezione perenne.

Sta di fatto, però, che le fonti citano un’altra chiave sulla quale potrebbe essere stato cesellato lo stemma urbico: la copia in possesso delle autorità cittadine che serrava, con l’altra conservata dai Gesuiti, la cassa dove fu deposto «il corpo morto» del Padre nel 1616.

Le ricerche

Le ricerche condotte per conoscere il motivo della presenza della chiave nella teca, infatti, hanno permesso di ricostruire le vicissitudini relative alla sua sepoltura. È stato possibile, inoltre, venire a conoscenza dell’impegno profuso dal Padre nel promuovere il culto della patrona Irene e rivelare frammenti di vita del noto umanista leccese Vittorio Prioli e di un cipresso caduto nel giardino della sua residenza: palazzo Giaconia.

La fonte primaria per ricostruire gli avvenimenti è la raccolta degli atti del processo di canonizzazione, pubblicata a Roma nel 1828 (di cui alcuni stralci sono stati trascritti nel testo a seguire), ma è stato indispensabile consultare anche alcune tra le numerosissime biografie di padre Realino e le opere stilate in quegli anni riconducibili all’argomento in questione. Padre Bernardino Realino e alcuni confratelli furono inviati a Lecce nel 1574 per fondare una casa professa della Compagnia del Gesù. La fama del padre era già nota in città. Nel corso degli anni fu accresciuta per la popolarità da taumaturgo, che lo rese di fatto protagonista della vita religiosa locale. Alla sua morte, sopraggiunta a Lecce il 2 luglio 1616, le autorità cittadine decisero di avviare subito il processo diocesano per elevarlo alla gloria degli altari, ma si dovette aspettare il 1623 per iniziare quello ufficiale, tant’è che tra i testi non compare Vittorio Prioli, morto nel 1619. Palesa la determinata intenzione dei leccesi di volerlo santo la messe di devoti che si recò a rilasciare testimonianza delle sue gesta e dei miracoli a lui attribuiti. Nonostante tale fervore – a causa degli eventi storici del regno di Napoli e delle traversie occorse alla Compagnia di Gesù – la Santa Sede decretò la venerabilità di padre Realino solo nel 1838, la beatificazione nel 1896 e finalmente lo proclamò santo nel 1947. Le dichiarazione raccolte nel 1623 riferiscono delle centinaia di devoti che si riversarono nella chiesa del Gesù quando fu esposta la salma e della decisione di riporla, il 4 luglio 1616, eccezionalmente in una bara, «non usandosi cassa à morti della Compagnia se non à chi more con gran opinione di Santità» (testimonianza del gesuita padre Antonio Beatillo), serrata da due chiavi, perché «il Signor Sindico della Città per l’istanza grande, che ne li fecero la Nobiltà, et il Popoli volse una chiave, la quale dovesse conservarsi nell’Archivio publico di questa Città della Cassa predetta, et havendo il Padre Vicerettore di quel tempo fatto scrupoli di dargliela, si mosse tutta la Città, si fecero proteste scritte in modo, che il Padre Vicerettore per non attristare tutti, si contentò che nella Cassa fossero due chiavi, et una ne tenesse il Superiore del Collegio, e l’altra la Città».

La cassa

Nell’ottobre del 1616 il sacerdote leccese Giovanni Francesco Salice fu presente «un giorno dopò pranzo, che fu cacciata la detta Cassa della Sepoltura, e fù posto il detto Santo Corpo dentro un’altra Cassa … la quale fù anche serrata con due chiavi, & una ne pigliò il Signor Giovanni Pietro Gravili per la Città, e un’altra li Padri del Collegio». Il trasferimento, puntualizzò Salice, avvenne alla presenza di «Padre Beatilli, il fratello Giulio Cesare Carrozzo, il fratello Donato Maria Ventura, il Signor Claudio Antoglietta, il detto Signor Vittorio de Prioli, et altri» e di lì a poco la cassa «fù posta nel monomento di pietra, la quale à quest’effetto sontuosissamente hà fatto la Communità di Lecce alla banda sinistra dell’Altare Maggiore». Un esemplare, secondo il notaio Andrea Patarnello, «tanto ben lavorato, che in questi paesi non ci è cosa simile». Il sacerdote riferì, inoltre: «nella prima Cassa, dove era stato posto il detto Santo Corpo dentro la Sepoltura, restò nella parte di sotto un’effigie, seù ombra del Corpo, e la ritenne per molti giorni, come io viddi un mese dopò, che dal Signor Claudio Antoglietta fù mandata in Napoli».

La nuova cassa, in cipresso foderata in broccato d’oro, fu realizzata dal falegname Cesare Celonese. L’artigiano dichiarò: «Quando morì il Padre Bernardino Realino Giesuita per alcuni giorni prima, e dopo io stetti nel Colleggio di Lecce lavorando una Cassa per metterci dentro il Corpo di detto Padre Bernardino, e me la fece fare il Signor Don Vittorio de Prioli d’alcuni pezzi di cipresso, che esso haveva, e mi disse, che lo faceva fare per riverenza di detto Padre Bernardino, e per la divotione grande, che esso li portava – ma perche io non la potetti finire à tempo, perche la volse fatta molta grande, e ben lavorata, & ornata, per questo il Corpo del morto fù posto in un’altra Cassa ordinaria, d’onde lo levorno dopò alcuni mesi, e lo posero nella Cassa di Cipresso, che io l’haveva fatta, se bene hò inteso, che li Padri l’impiccolirno dopoi, perche veramente era troppo grande». L’atto di devozione di Prioli fu declamato nell’ode “Per un Cipresso, ch’altissimo sorgeva, nel Giardino di Don Vittorio Priuli, sradicato da rapidissimo Turbine, del cui pedal si formò l’Arca al M.R.P. Bernardino Gesuita, morto nella famosa Città di Lecce, con opinione di Santità”, contenuta nella raccolta “La musa lirica”, pubblicata nel 1620 a Venezia, del poeta di Manduria Ferdinando Donno (1591-1649).

Non da ventosa, e rapida Bipenne, Da l’Eolia Magion ne l’aria uscita, Lo grand’Albero eccelso uscì di vita, O’ da Denti del tempo à terra venne. Fù Virtù, che da gli Astri il volo ottenne, E’n dolc’aura d’Amor fè à noi partita; Sue’ fe la Pianta, e fè saggia, e spedita Dir mille lingue, e scriver mille penne. Secò Fabro pietoso il nobil Stelo, L’Arca compose in cui serrar si possa Di Sacro Spirto il venerabil Velo. Così sopr’aureo Cerchio industre possa Piropo incastra, ò qual su’l quarto Cielo Dio pose il Sole, e illustra Olimpo, ed Ossa.

Al cipresso, inoltre, l’anno precedente alla morte di padre Realino era stato dedicato le “Cento Imprese” fatto da fra Francesco Cuomo nella “Caduta del Cipresso nel Giardino del Sig. re Vittorio Prioli in Leccio à II di Marzo 1615”, una raccolta di illustrazioni accompagnate da cartigli declamanti le gesta dell’albero. Nel giardino del monumentale palazzo – già appartenuto al vescovo di Castro Angelo Giaconia e poi al prelato croato Daniele Vocazio – Vittorio Prioli «raccolse ai suoi tempi, fra laureti e mirteti e sceltissimi fiori, colonne, bassorilievi, iscrizioni, statue, e quant’altro d’antico aveva raccolto in escavazioni praticate a Lecce, a Rhudiae ed a Salapia, insieme al suo amico Claudio Falconi barone di Latiano». Il conte Vittorio Prioli, sindaco di Lecce nel 1593, era un appassionato studioso di storia locale e genealogia. Compose la “Storia delle Famiglie Nobili di Lecce”, e la “Storia delle scorribande turchesche nella nostra Provincia”, non più consultabili. Dedicò, inoltre, «à Santa Irene e à i Padri del Collegio di Lecce della Compagnia di Giesù»: due odi pubblicate nel 1609 nella “Historia della vita, morte, miracoli, e Traslatione di Santa Irene da Tessalonica Vergine, e Martire, Patrona della Città di Lecce in terra d’Otranto”, con le sue “Annotationi dichiaratorie”, opera di Antonio Beatillo, data alle stampe nel 1609 a Bari. Prioli è da ritenersi un punto di riferimento per gli eruditi locali, Jacopo Antonio Ferrari e Scipione Ammirato, ad esempio, si rivolsero a lui quando composero loro opere dedicate alla storia di Lecce.

In “Delle Famiglie nobili Leccesi”, Francescantonio di Giorgio si sofferma sui rapporti intrattenuti da don Vittorio con esponenti della famiglia d’origine residenti a Venezia, tant’è che il patriarca Lorenzo Prioli s’adoperò affinché ricevesse i titoli di conte palatino e di cavaliere dell’Aurata milizia. Vittorio Prioli morì nel 1619 e volle essere sepolto nella cripta del Duomo, non nell’altare di famiglia, con cui era in rotta – attestato già nel 1555 e posto nell’ala destra del soccorpo – ma in quello maggiore, all’epoca dedicato a santa Maria della Neve. L’altare, infatti, è sormontato dallo stemma Prioli «palato d’oro e d’azzurro di sei pezzi, col capo di rosso», riprodotto pure su alcuni capitelli del pio luogo, dove compare anche affiancato da due sauri, così come l’esemplare scolpito sulla facciata del veneziano palazzo Priuli all’Osmarin. Un altro capitello nella cripta reca scolpito l’antico campanile del Duomo, ritenuto copia della torre di Salonicco dove sant’Irene sarebbe stata imprigionata dal padre, prima di essere martirizzata. La ferma volontà di conquistare il consenso della cittadinanza – che si divise in due vere e proprie fazioni – spiega l’attenzione rivolta dai chierici regolari della Compagnia del Gesù e dei Teatini nei riguardi del culto di sant’Irene e alla venerazione delle sue reliquie. I padri Teatini, insediatisi in città nel 1586, le dedicarono la loro chiesa. Beatillo scrive: «vollero essi far cosa grata à Leccesi, che la Chiesa quale avevano a fabricare», la prima pietra fu benedetta nel 1591, «avesse il titolo della Protettrice di Lecce Santa Irene. Cosa che piacque tanto alla Città, e tanto le fù a cuore, che determinò fare a sue spese».

La chiesa 

La chiesa, consacrata nel 1602, custodiva «Il corpo intero di S. Irenia m.». I Gesuiti non furono da meno. La “Historia” di Beatillo fu stampata lo stesso anno dell’arrivo a Lecce di «un’altra Santa Irene pur Vergine e Martire di Salonichi, come tengono alcuni, o più tosto di Portogallo, come vogliono altri», le cui reliquie furono riposte nella chiesa del Gesù in «una cassa di cristallo fregiata a nastri, e serrature di argento», donata dalla duchessa di Noci Caterina Acquaviva, moglie del presidente della Provincia Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona. La notizia è riportata nella “Istoria della compagnia di Giesù”, appartenente al regno di Napoli, pubblicata una prima volta nel 1711, opera di Francesco Schinosi e Saverio Santagata. I due scrittori riferiscono, inoltre, che nel 1604 erano state «trasferite da Roma nella Chiesa del Collegio di Lecce alcune insigni Reliquie di Santa Irene Protettrice di quella Città. La proprietà, e la sacra pompa, con che ciò si fece, si trova descritta dagli Autori della Vita del Venerabile P. Bernardino Realini, i quali aggiungono, che il predetto Servo di Dio, prese a venerarle con ispecialissimo culto, e lo stesso procurò, che facessero i Cittadini». L’anno successivo, ultimata una «Cappella magnifica, per collocarvi la statua di Santa Irene, insieme colle sue Reliquie», i padri si accinsero ad organizzare la cerimonia, ma fu sparsa voce che le reliquie fossero false. Si dovette esibire i documenti «da’ quali appariva il Cimitero, onde si eran tratte, il nome, e la individual qualità della Martire di cui erano, e la licenza del Romano Pontefice, che permessa ne aveva la traslazione nella nostra Chiesa». Ci fu chi, inoltre, si adoperò «col Magistrato, affinché impedisse la pubblica solennissima Processione destinata a collocar la statua nella predetta Cappella». Nonostante «far non si potesse la Processione per le piazze della Città, fecesi nondimeno tra i recinti del Collegio, e della Chiesa con istraordinario concorso, ed applauso del Popolo».

Le reliquie

Le reliquie romane risultarono miracolose: «Or mentre» padre Realino «s’ingegnava di accrescere in alcuni, e dilatare in altri la divozione della Santissima Martire, avvennero due prodigj, che noti furono a tutta la Città; il primo fu, che le Reliquie collocate già nell’Altare incominciarono a traspirare un odor suavissimo, che per molto tempo profumò il Tempio in maniera da non potersi negare chichesia». Lo stesso Padre, intento a «esporre in versi il prodigioso odore, in un baleno rimase sano da un pertinacissimo morbo, che per quattro anni infettato gli aveva il sangue, e ricopertolo come di lebbra». I due miracoli vennero celebrati «da’ migliori Oratori, e Poeti di quel tempo», i cui versi furono raccolti dal gesuita leccese Leonardo de Anna in “Bernardini Realini e Societate Iesu sacerdotis vitae” del 1656, il quale affermava – riassumono Schinosi e Santagata: «la divozione verso Santa Irene crebbe in modo, che non vi era infermo, il quale per mano del Realino non volesse esser tocco colle sue Reliquie: ma non potendo egli soddisfare a tutti, persuase a’ parenti, che preso un poco di bambagia, o sia cotone, lo appressassero alle ossa della Santa Martire, e poi se ne servissero ad applicarla a’ loro infermi». Secondo de Anna, aggiunsero i due autori: «Il primo, che si accinse a ciò fare fu Vittorio Prioli uomo nobile per trovar giovamento non ad altrui, ma a se medesimo, poiche spasimava per dolor di denti: ma che accadde? Appena ebbe egli tocca colla bambagia l’odorosissima urna, che ancor la bambagia divenne odorosa, e appressata alle gincive, se di repente sparire ogni spasimo». «P. Bernardino – continuò – a mettere dentro al Reliquiario altra bambagia, e divenuta tutta, e sempre odorifera, la divideva in parti per applicarla da sè, o per mandarla attorno in luogo delle Reliquie». Ci fu chi dubitò «non esser vero il sì decantato odore traspirante dalle Reliquie, ma o ideale, o sovrapposto a ingegno di malizia». Sconfessò le malelingue il vescovo Scipione Spina, «il qual venuto a riconoscere giuridicamente, niente vi trovò di profumo aggiunto, o di altra cosa, onde sospettar si potesse di qualche frode». La veridicità del prodigio fu confermata da «i Medici più valenti, ed altri uomini peritissimi della qualità, e diversità degli odori: eglino di unanime consenso decisero, che quello, che traspirava dalle sacre Reliquie non solo era vero, ma niente aveva di comunale per tre proprietà, che da ogni altro il distinguevano, ed erano: la suavità, che non aveva uguale nel confortar le narici: la comunicazione, onde al solo contatto si trasfondeva in altri corpi, benchè inetti a riceverlo: l’attività, per cui sentivasi anche da coloro, che avevano il senso dell’odorato debilitato, o vero ammortito».

© RIPRODUZIONE RISERVATA