La città scomunicata

Via Rubichi
Via Rubichi
di Mario CAZZATO
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Giovedì 3 Agosto 2023, 17:56 - Ultimo aggiornamento: 4 Agosto, 13:27

Questo episodio è tra i più bui e tristi della storia leccese, funesto e clamoroso, collocandosi nel periodo di più acuto contrasto tra le corti di Napoli e Roma. Gli strascichi arrivarono fino alla corte di Vienna per l’intervento nella contesa di uno dei più notevoli giuristi del tempo, Gaetano Argento, che difendeva le ragioni di parte civile. Tali giuristi erano noti come i difensori dell’«anticurialismo».


I fatti: il vicerè di Napoli ordinò che si sopprimessero i mulini della farina situati – indebitamente – dentro i monasteri leccesi. L’ordine fu prontamente eseguito da governatore e sindaco che, per questo, furono citati al Tribunale Ecclesiastico dal vescovo Fabrizio Pignatelli. Non essendosi presentati, furono scomunicati, pratica assai frequente in simili episodi.

L'atmosfera divenne incandescente


L’atmosfera divenne subito incandescente e l’11 novembre 1711 s’impose, addirittura per ripicca, il carcere nella Regia Udienza al vescovo. Come in effetti si verificò, mandandolo sotto scorta prima a Napoli e da qui a Roma, dove trovò miglior rifugio. Tuttavia il prelato fece comunque in tempo a scomunicare altre 59 persone e a pubblicare il temutissimo “Interdetto” contro la città e la diocesi. Era un dies irae che voleva dire chiudere sine die chiese e cappelle, pure quelle monastiche, negare la sepoltura ecclesiastica ai defunti e vietare tutte le funzioni pubbliche di carattere religioso ai fedeli, come battezzare e confessarsi: la paura della dannazione eterna si era impossessata dei devoti leccesi che avevano ben 28 santi protettori oltre al patrono e protettore principale, Oronzo, protomartire e protovescovo. Così si pensava e si affermava.

Messe a porte chiuse


Le poche messe si celebravano a porte chiuse e un anziano leccese, tale Leonardo Perchia, come riportato nelle Cronache di Lecce, fu «seppellito dentro un magazzino avanti la porta di San Biagio quale poi fu convertito a sepoltura». La città recuperò altre sepolture «dentro le moline di Rugge, dentro il torrione della strettola vecchia […] li cadaveri si seppellivano senza accompagnamento di confraternite e senza lumi accesi […] molti si seppellivano come bruti». Era la giustizia divina a fare il suo corso contro i leccesi che avevano osato sfidarla attraverso l’offesa all’autorità vescovile. Per questo da Napoli furono assegnati a Lecce «quattro cappellani regi» per celebrare messe nella chiesa della Trinità, ma senza suono di campane e solo con metà porta aperta.
Risposero immediatamente da Roma ordinando che codesti cappellani dovessero recitare messa con le porte serrate. Ordine subito respinto da Napoli. La confusione era totale e nessuno sapeva come agire, perché sulla testa pendeva sempre la scomunica. E l’Interdetto, tra lo sconforto popolare, doveva durare ancora anni.
Il 26 agosto 1714 moriva il sindaco Giuseppe di Pompeo Paladini che, essendo scomunicato, ebbe sì solenni funerali da parte della Città ma fu seppellito tuttavia nel Sedile: uno scandalo!


C’è da osservare che ridotte, se non cancellate, le funzioni religiose, si incrementarono per converso quelle civili o militari. Nel 1716, per esempio, «il console imperiale […] avanti la sua casa poco lontana dalla cappella di San Pantaleo, fece una sontuosissima festa con avere apparato tutta quella lunga strada di tappezzerie di seta ed illuminazione di cera, coll’invito a tutti nobili e civili […] abbondanza di sorbetto e scelta musica».
Le contrapposizioni, tuttavia, stavano mutando e mutarono all’improvviso, inaspettatamente, quando il 15 marzo 1719 – anno decimo dell’Interdetto, come dicevano le cronache – arrivò ordine che «si dovesse togliere il sequestro da sopra gli affitti ed entrate della mensa vescovile», episodio che aveva scatenato la decennale contesa. Subito in città «si suonarono a gloria tutte le campane e s’incominciarono a sparare una infinità di mortaretti nella pubblica piazza e la sera si illuminò la città tutta e il campanile». Ovviamente si attribuì questa pacificazione per intercessione di Sant’Oronzo: il protettore aveva operato un altro miracolo.


Pertanto, si apprende ancora nelle “Cronache di Lecce”, il vescovo poteva tornare finalmente dal suo esilio romano e giunse a Lecce il 23 aprile 1719. Il giorno seguente lo stesso prelato, già insultato, maltrattato, schernito e umiliato per anni, fu accolto come un sovrano: «fermatosi presso i domenicani “di fuori” […] ivi trovò la città in forma pubblica che lo stava aspettando, associato il sindaco da una infinità di carrozze
Cattedrale e palazzo vescovile in un disegno di G. Giorgino come pure il battaglione a piedi tutto in ordinanza con più e più spari e scariche di fucili».


Dentro porta San Giusto il vescovo trovò un enorme arco trionfale sotto il quale passò benedicendo. Giunto in cattedrale, sontuosamente apparata, in uno strepitio di fuochi artificiali, «ordinò che si strappassero i cedoloni di scomunica e fatta l’assoluzione generale dall’Interdetto intonando il Te Deum». Le feste durarono ben otto giorni.
Finalmente i leccesi potevano seppellire i loro cari in terra consacrata, omaggiare soprattutto economicamente le numerose confraternite, prendersi cura delle loro cento chiese – nel libro Lecce Sacra l’autore, Giulio Cesare Infantino, nel 1634, ne contava ben 113 –, battezzarsi e sposarsi di fronte a un parroco, sacramenti sospesi da un decennio. Il vescovo morì il 12 maggio 1734 «amante della nostra città come ancor da tutto il popolo era amato, riverito e onorato». Ma con qualche timore.
 

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