Statue in argento di Sant’Oronzo a Lecce, Ostuni e Campi Salentina: la storia

Statue in argento di Sant’Oronzo a Lecce, Ostuni e Campi Salentina: la storia
di Giovanni BORACCESI
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Giovedì 24 Agosto 2023, 12:46 - Ultimo aggiornamento: 12:47

Quanto il culto di Sant’Oronzo sia predominante in Terra d’Otranto, in primis a Lecce di cui è il principale patrono, è dimostrato dal fatto che non vi sia centro, grande o piccolo nel Salento che non sia dotato di una chiesa, cappella o altare a lui dedicati. Oltre al capoluogo, il solido patronato oronziano coinvolge altre città di questa subregione della Puglia: Campi Salentina, Caprarica di Lecce, Surbo e, sebbene fuori da questi confini amministrativi, anche la città di Ostuni nell’Alto Salento e la città Turi in Terra di Bari. Qui intendo sottoporre ad analisi critica le statue in argento che hanno come soggetto la figura di questo indiscusso protagonista della storia religiosa del Salento, di frequente ritratto, secondo una tradizione iconografica ampiamente consolidata, come un vescovo provvisto di una vistosa barba, benedicente e abbigliato in sontuosi paramenti. Da questa disamina sono escluse le piccole raffigurazioni in argento a tutto tondo, autentiche microsculture, che spesso arricchiscono altre tipologie di arredi liturgici: calici, cartegloria, pastorali, reliquiari, ecc.

La storia

Laddove, per questioni economiche o per altro, non fu possibile commissionare statue in metalli preziosi, si fece a volte ricorso a materiali poveri quali il legno o la cartapesta dipinti, argentati e/o dorati. Questa simulazione del metallo coinvolge, per esempio, il noto busto di Sant’Irene dell’omonima chiesa leccese e quelli di San Giusto e di San Fortunato della Cattedrale del medesimo capoluogo. Un altro dato che ci pare importante evidenziare è quello della città di Surbo, limitrofa a Lecce la cui chiesa di Santa Maria del Popolo custodisce una statua di Sant’Oronzo in legno argentato e dorato.La radicata devozione nei confronti del Santo è la conseguenza del fatto che nel 1658 l’allora vescovo Luigi Pappacoda (1639-1670) ne decretò il patronato sulla città di Lecce, risparmiata dal contagio della peste che nel 1656 imperversò a Napoli. In questo clima, perciò, entra prepotentemente in causa il mezzobusto argenteo di Sant’Oronzo, ora allogato nel locale Museo d’Arte Sacra (MuDAS). Nel 1719 lo storico Giuseppe Cino lo cita come opera di Domenico Gigante «nostro compaesano, che risiedeva in Napoli ed il lavoro di sua maestria l’have fatto gratis per voto fatto a questo Santo». Aggiunge, inoltre, la notizia che il manufatto pervenne a Lecce il 1° giugno 1691 e depositato dapprima presso il monastero extra moenia degli Olivetani per poi essere due giorni dopo traslocato in Cattedrale con cerimonia solenne.

Scarse a tutt’oggi le notizie su Domenico Gigante e sulle iniziali esperienze professionali: nato a Lecce intorno alla metà del XVII secolo, si trasferì a Napoli presso la bottega di un non meglio noto argentiere oppure, già formato in patria con questa mansione artistica, fu costretto a trapiantarsi nella capitale verosimilmente per migliorare la sua posizione economica. Al riguardo, non va dimenticato che la Prammatica LVII De Monetis del 19 agosto 1690, licenziata dal viceré Francesco Bonavides (1687 - 1696) conte di Sant’Estevan, imponeva di lavorare l’argento solo nella “Fedelissima” città di Napoli; una disposizione, questa, per la gran parte disattesa. Intorno agli scarni episodi della biografia di Gigante, va evidenziata una notizia riportata da Michele Paone che. sebbene non meglio indicata, riferisce che il maestro «fu incarcerato, processato e prosciolto dall’accusa di falso nummario»; al riguardo gli studiosi Elio e Corrado Catello hanno ipotizzato che si fosse trattato di un processo per «tosatura o falsificazione delle monete». È probabile, ma non abbiamo le prove, che il nostro artefice sia stato parente di tal Luzio Gigante, non altrimenti noto, autore di un irreperibile busto di San Domenico, in legno e argento (o in legno argentato?), licenziato nel 1646 per il convento leccese dei Predicatori, sotto il titolo dell’Annunziata. Il primo e indiscutibile documento che riguarda Domenico Gigante, relativo alla commissione di «una Croce, sei Candelieri, quattro Giarre piccole, due Giarre grandi con le frasche di argento», risale all’8 giugno 1685. Tali opere, volute dall’abate Celestino Tirano per l’altare maggiore della chiesa napoletana di San Pietro a Majella e del costo di 1785 ducati per il solo argento, purtroppo non sono a noi pervenute.

Va opportunamente rilevato «che li soddetti Candelieri, Croce, Giarre, e Frasche debbiano essere d’ogni perfettione così d’argento come di manifattura, et mercato con il Merco delli Consoli di questa Città seu Arte d’orefici». Va altresì evidenziato che proprio in questa chiesa napoletana la nobile Irene Marescalla Colonna Civitatis Lupiorum, vedova di Pompeo Colonna, nel 1676 acquista una preesistente cappella sotto il titolo di Santa Maria di Costantinopoli per poi dedicarla a Sant’Oronzo; questa diverrà il luogo della sua sepoltura e dei suoi eredi nonché di «tutte le persone leccesi e della Provincia di Lecce dell’uno e dell’altro sesso che moriranno in questa Città di Napoli». Dopo uno scarto di sei anni, di lui conosciamo il ragguardevole saggio del busto di Sant’Oronzo di Lecce, citato poco sopra e analizzato più innanzi. Significativamente allogato nel principale luogo di culto della sua città d’origine, il manufatto testimonia la consolidata esperienza e l’abilità tecnica del suo artefice nonché il suo livello di notorietà, come stanno a dimostrare le ricordate committenze del 1685 per la chiesa di San Pietro a Majella. Alla luce di ciò, è quindi ipotizzabile che negli archivi di Napoli possano rinvenirsi ulteriori dati sul suo operato, su eventuali altre opere e magari, il proprio punzone di riconoscimento, se da lui adottato.

Circa l’eventuale formazione in loco del giovane Gigante e del ruolo avuto da Lecce nella produzione di oreficerie nei secoli passati, ritengo opportuno segnalare l’acquisizione in letteratura sia del gran numero di artisti operosi in città, sia dell’esistenza, almeno dal 1529, del punzone «LICI», poi trasformato in «Lec», che lascia palesemente percepire il ruolo primario avuto nel corso del Quattrocento e Cinquecento dagli orafi e dagli argentieri del capoluogo, come pure la struttura associativa dell’Arte che li raccoglieva. In tal senso, una conferma piuttosto illuminante di una fervida koiné ci viene offerta da un documento del 30 giugno 1535 in cui, seppur indirettamente, si fa esplicito riferimento all’ ufficio dell’Arte degli argentieri di Lecce. A tutto ciò bisogna aggiungere come lo spoglio di una serie di documenti archivistici del XVII secolo abbia fatto emergere i nomi di argentieri e orafi locali che esercitavano per lo più in botteghe di proprietà di istituzioni ecclesiastiche.
Il mezzobusto oronziano è un buon saggio della ritrattistica e il suo valore plastico è accentuato dall’uso sapiente dello sbalzo e del cesello. Con puntigliosa precisione descritta la fisionomia dell’effigiato e ogni altro dettaglio. Proprio il gusto del dettaglio trova felice attuazione, fra i tanti, nello scudo del piviale, visibile nella parte posteriore, ingentilito da una ricca e magistrale decorazione vegetale di grande resa naturalistica, corrispondente al gusto del tempo. Sul basamento sono sbalzate alcune scene legate alla vita del Santo e al suo patronato sulla città di Lecce nonché gli attributi vescovili. L’impostazione del mezzobusto leccese non si discosta di molto da altri coevi esemplari di produzione napoletana: cito, per esempio, il San Sabino del Museo Diocesano di Bari, realizzato nel 1674 da Andrea Finelli, e il San Tammaro dell’omonima basilica di Grumo Nevano, licenziato nel 1677 da Gian Domenico Vinaccia. Il busto in esame è riportato in un inventario del tesoro di Sant’Oronzo, datato 19 aprile 1880, appositamente stilato in occasione della Santa Visita di monsignor Salvatore Luigi Zola (1877 - 1898): «Statua d’argento di S. Oronzo a mezzo busto con mitra ornata di pietre preziose ed anello con pietra giacinto in mezzo e circondato da brillanti».

È curioso come nessuno degli studiosi che si sono occupati dell’opera, abbia previsione dei punzoni ripetutamente incussi sulla mitria e sulle infule: quello di garanzia della città di Napoli, purtroppo lacunoso nell’ultima cifra del decimale «NAPI/71 (?)», quello dell’argentiere «L C» e l’altro del console «G·/B·B·A/·C».
Viene da sé che questa mitria, fittamente decorata di racemi con una profusione di gemme colorate, nel giro di pochi lustri, fu eseguita da un’altra mano, pur non conoscendone le ragioni: furto o irreversibile danneggiamento di quella originale?; non va altresì esclusa l’ipotesi che il Sant’Oronzo fosse fin da principio dotato di una semplice aureola, Non ho alcuna difficoltà, invece, a ravvisare nella prima sigla il bollo personale di Lorenzo Cavaliere, finora documentato dal 1694 al 1739, data di morte del maestro. La seconda sigla è pertinente a Giovanni Battista Buonacquisto, finora console per gli anni 1704, 1708, 1711, 1715; ne consegue che il copricapo vescovile, in virtù del sopramenzionato punzone di garanzia, sarà stato confezionato entro il secondo decennio del Settecento, precisamente tra il 1710 e il 1719. Tre anni dopo la consegna del busto argenteo, nella medesima Cattedrale pervennero altri mezzibusti di santi, però stavolta in legno dipinto argentato: quello di Sant’Oronzo, oggi perduto, unitamente a quelli dei due altri compatroni San Giusto e San Fortunato, tutti attribuiti a Gaetano Patalano (Lacco Ameno 1655 - Napoli (?), post 1699). Sebbene realizzata in lamine di rame inchiodate su un’armatura lignea, al patrimonio artistico della città di Lecce appartiene la nota statua di Sant’Oronzo, issata su una delle due colonne terminali della Via Appia che finiva a Brindisi e qui reimpiegata nel 1666 dall’ architetto Giuseppe Zimbalo in segno di gratitudine per lo scampato pericolo della peste del 1656. L’opera, alta circa cinque metri e del peso di dodici quintali è stata restaurata nel 2020 dalla ditta Emilio Colaci ed è ora conservata nell’androne del palazzo comunale. L’unica notizia che la riguarda è quella legata alla sua esecuzione avvenuta a Venezia nel 1737 su disegno dell’architetto Mauro Manieri (1687 – 1743 / 1744) e rifatta, sempre a Venezia, dopo appena due anni perché distrutta da un razzo esploso durante la festa patronale. Di aspetto solenne e avvolto in un ampio mantello, il santo è raffigurato benedicente, con lo sguardo rivolto verso la sottostante città. La scelta di rivolgersi a un artista della Serenissima scaturì forse dal fatto che la città lagunare era a quel tempo famosa per la fabbricazione di campane in bronzo, o magari, più semplicemente su suggerimento di un rappresentante della folta comunità veneziana di Lecce proprietaria della chiesa di San Marco (1543), adiacente la colonna.

Un’altra guglia pugliese che supporta una statua in rame è quella dell’Immacolata a Bitonto, realizzata nel 1733 per lo scampato pericolo del terremoto verificatosi due anni prima. Nel 2004 essa è stata restaurata dal consorzio Kavaklik Restauro.
Nella seduta del 24 maggio 1763, come testimoniano i documenti archivistici rintracciati da Marcello Ippolito, il Capitolo della Collegiata di Maria Santissima a delle Grazie a Campi Salentina si fece interprete della richiesta di due statue in argento raffiguranti Sant’Agostino e Sant’Oronzo. Per una questione di costi si decise di commissionare solo quella di Sant’Oronzo, da realizzarsi presso «il miglior orefice che vi è in Napoli». L’opera, la cui sorte è legata all’infelice trafugamento avvenuto nel 1976, pervenne a Campi l’anno successivo, stando a chi ne rilevò dapprima le punzonature: il bollo della città di Napoli «NAP/1764» e quello consolare connotato dalle lettere «GRC». Dando per buona la corretta lettura di questi punzoni, in particolare quello consolare, all’anno 1764 dovrà aggiungersi il 1769 e, pur dubitativamente, il 1763. Con precisione maniacale e limpidezza erano trattati i dettagli descrittivi della statua in esame, come i tratti anatomici, le vesti liturgiche (stupenda la definizione del disegno floreale del piviale), gli attributi vescovili e perfino la movimentata base, presumibilmente in bronzo dorato. In assenza di ulteriori indizi, resta a tutt’oggi da scoprire il nome dell’artista del busto di Campi Salentina.

Analogamente a quanto accadde a Lecce e a Campi Salentina, anche la città di Ostuni si dotò di una statua argentea, qui però a figura intera, di Sant’Oronzo, santo patrono e protettore della città brindisina. Il pregevole manufatto è notevole per il realismo della raffigurazione e per la spettacolare riproduzione calligrafica dei decori (il piviale soprattutto) e dei particolari anatomici. Posta su un elaborato basamento in argento e bronzo dorato, la statua fu realizzata nel 1794 dall’argentiere napoletano Luca Baccaro le cui prime notizie si hanno proprio a partire da questa opera, fino al 1835 quando realizza, in collaborazione con Francesco Saverio Rossi e Luigi Caruso la statua di San Luigi Gonzaga per la cappella di San Gennaro nel Duomo di Napoli - come certifica il bollo con le iniziali «L·B», ma ancor più la firma: Luca Baccaro artifex fuit. A commissionarla, per un consistente costo di 4.000 ducati, fu l’aristocratico Pietro Sansone. A detta degli studiosi Elio e Corrado Catello, ma su segnalazione dello studioso romano Costantino Bulgari, tale manufatto veniva custodito nella cappella privata di palazzo Sansone e da qui, dopo il 1973 per lascito testamentario dell’erede Pietro Sansone in Cattedrale.
Nell’iscrizione incisa sul retro della statua, ov’è pure raffigurato lo stemma partito dei Sansone-Petraroli, è condensata la sua vicenda: «HOC DIVI ORONTII SIMULACRUM / OSTUNENSIS CIVITATIS / AC TOTIUS PROVINCIAE SALENTINAE PATRONI / VOTI ET OBSEQUII SUI PIGNUS / D. PETRUS SANSONIUS / EX NOBILI PETRAROLI FAMILIA / AERE PROPRIO SIBI SUISQUE / FACIUNDUM CURAVIT / ANNO REPAR. SAL. MDCCXCIV». Da considerare come accessori della statua in questione, due ex voto anch’essi in argento che testimoniano l’intensa devozione verso questo simulacro. Il primo riguarda una Coppia di chiavi, tra loro strutturalmente differenti, su una delle quali corre l’iscrizione «SAC. D. ANGELO AURISICCHIO (1830)»; si tratta simbolicamente delle chiavi della città di Ostuni offerte al santo patrono. Il secondo è un Bracciale, inserito nell’avambraccio della statua argentea, con inciso il monogramma «VFGA» (Votum Fecit Gratia Accepi). Entrambi i manufatti andrebbero assegnati a maestranze locali.Per inciso, Luca Baccaro è anche l’autore della più modesta statua in argento di San Pantaleone (1805) della parrocchiale di Santa Maria dei Martiri a Martignano e dei due Putti a fusione posti ai lati della più antica corona (1782) consegnata dal Capitolo Pietrino di Roma all’Icona Vetere di Foggia. Di lui, inoltre, anche la statua di San Cesario recentemente individuata nell’omonima chiesa di Cesa, in provincia di Caserta.

Il mio percorso tematico si conclude con una seconda statua di Sant’Oronzo, questa volta a figura intera, ancora una volta posseduta dalla Cattedrale di Lecce. Alterata dal trascorrere del tempo e da incaute manomissioni, è stato oggetto di un recentissimo restauro. Per consenso generale, la si commissionò nel 1864 dopo che il capoluogo salentino fu risparmiato dall’ epidemia di colera del 1854, così come recita l’iscrizione sul basamento: “EX VOTO. OB. CIVITATEM. / AB. ASIACO. MORBO. AN. MDCCLIV. / PRAESERVATAM. MUNICIPIUM. LYCIENSE. / COLLATO. AERE. HOC. D. ORONTII. / PATRONI. ARGENTEUM. SIMULACRUM. / CONFLANDUM. CURAVIT. / ANNO. R. S. MDCCCLXIV.» Più che da gesti dinamici il Santo è caratterizzato da una tranquilla posa. Ammantato di piviale prezioso a motivi floreali e di altre vesti liturgiche, è accompagnato da un paffuto angioletto intento a reggere il pastorale e lo stemma del comune di Lecce. Mirabile e raffinato è il decoro vegetale che copre la superficie superiore del basamento. Dalla letteratura pariegetica locale apprendiamo che la statua fu modellata dal leccese Antonio Maccagnani (1809 - 1892), per poi essere scolpita dal napoletano Francesco Citarelli (1790 - 1871), immagino in terracotta o in cera, e infine tradotta in argento dal maestro Vincenzo Caruso, che qui imprime il proprio punzone «V./Caruso» accompagnato con il marchio del Regno di Napoli: sia quello in uso con la legge del 18 febbraio 1832, sia quello del 4 maggio 1839. Dell’argentiere Caruso - noto dal 1826, anno in cui conseguì la patente, al 1885 - in Puglia si sono rinvenute diverse opere. Francesco Citarelli è invece noto anche per il modello del San Biagio in argento (1816) del tesoro di San Gennaro a Napoli. Il modello in gesso del Sant’Oronzo di Antonio Maccagnani si è conservato ed è esposto sull’ altare del transetto sinistro della chiesa leccese di Sant’Irene.

Relazione tenuta in occasione del Convegno Nazionale di Studi per il Giubileo Oronziano organizzato dall’Arcidiocesi di Lecce – Lecce, 30 giugno – 1° luglio 2022.

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