Lecce città d’arte, se ne frega di chi arriva e di chi parte

La città in un disegno di G. Giorgino
La città in un disegno di G. Giorgino
di Mario CAZZATO
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Martedì 22 Agosto 2023, 14:47 - Ultimo aggiornamento: 23 Agosto, 10:20

Nel recensire la Mostra della caricatura leccese (1908), Pietro Palumbo scriveva che «un filone di umorismo ha sempre pervaso le vene di noi salentini». E forse più che per l’umorismo i leccesi di una volta si distinguevano per ironia e buon umore, proprio quelle qualità che nel corso dell’Ottocento – prima non siamo meglio informati – caratterizzavano i piccoli artigiani che si cimentavano con i pupi e soprattutto con le statuette in creta e i disegni colorati raffiguranti personaggi locali noti e meno noti, senza cattiveria o partigianeria politica. Opere diffuse dai numerosi fogli che si stampavano settimanalmente, con diffusioni più alte di quelle odierne. Nell’esecuzione di queste statuine fu leggendario Giuseppe detto Pippi Rossi (Lecce, 1861-1931) che firmava le sue deliziose caricature Roiss. Ma prima di costui, tra l’altro efficacissimo disegnatore, si era messo a fare pupazzetti caricaturali Basilio Bandello che aveva bottega di barbiere sotto palazzo Personè al Corso. Realizzò la caricatura di Don Ortensio – personaggio che non a caso diede il nome a un foglio umoristico – e di Don Limone, storpiatura del nome vero, Ivone Blanco di Soleto, popolarissimo fannullone che aveva sperperato le sostanze avite e viveva di espedienti con una pensione concessagli dai Borbone e poi, per inconfessabili motivi (spia?), confermatagli dal nuovo governo.

Costui era alto e grasso, dal viso butterato dal vaiolo e con i capelli tinti e impomatati. Era solito passeggiare con cravatte sgargianti, pantaloni bianchi e guanti. Normalmente monelli e giovinastri lo rincorrevano sbeffeggiandolo. Lui, dicono le cronache, si rifugiava in qualche portone e traendo dal taschino l’inseparabile specchietto esclamava: «O Dio, non più bellezza, le donne mi perseguitano». Un impareggiabile spasso per il popolo e fonte di preoccupazione per i genitori che avevano figlie giovani e belle. Fu così che nel corso della fiera di Santa Lucia, quando il Bandello schierò su una panca le caricature di Don Ortensio e di Don Limone, all’improvviso un coro di risate si levò dai leccesi presenti. Don Limone andò su tutte le furie e con il bastone frantumò le statuine. Quindi, sollecitato da un burlone, querelò per ingiurie il Bandello. Ma questi, com’era prevedibile, fu assolto e Don Limone fu accompagnato fuori dal tribunale con fischi e altro che non è bene precisare. Imperterrito continuò a infastidire le belle leccesi sino a quando non lo fece con la figlia del duca di San Cesario, che allora abitava nel grande palazzo Marulli, ora Famularo. Con un legno sospeso in aria come un ponte cercò di guadagnare il palazzo della bella: la scena fu talmente clamorosa che mosse perfino il prefetto Antonio Winspeare, il quale lo spedì a Soleto, dopo che l’interessato ebbe subito le legnate del duca. La città si riempì di commenti salaci tanto da scatenare perfino l’educato estro satirico di Cosimo De Giorgi, che scrisse:

Ma ti pare, mio caro don Limone

(La scusi, cavaliere volevo dire)

Che il ticchio d’ispirare una passione

In un uomo come lei possa capire?

Ed in cor di ricca e nobile donzella

D’una rosa di maggio assai più bella?

Perdio, ci vuol coraggio a sessant’anni,

Di sego e nerofumo inzafardato,

Con quel viso peggio d’un barbagianni

Ed al par di colatoio butterato,

Pretenderla a Narciso o a Ganimede:

Ci vede, cavaliere, o non ci vede?

Ma che cosa sarà se una pazzia

Che un coso al par di lei che non val nulla

Si senta strombazzar per ogni via

Tira a possesso di ricca fanciulla.

Ah, credete davvero che sia matto?

Scusate, io non lo credo a nessun patto.

Senta dunque, mio caro cavaliere,

Se ancor vivesse quel possente amico

Fosse Giulietta o no del suo parere

O il duca, il mondo importerebbe un fico:

Ché tosto o tardi troverebbe modo

Di conficcar dove vorrebbe il chiodo.

Ma si spense con lui la protezione.

Restò la legge che per tutti è eguale:

Chi sgambetta si manda oggi in prigione

E chi è matto si manda all’Ospedale.

Dunque, Limone mio, cangia pensiero

Se no, col tempo, impazzirai davvero!

Si seppe, in seguito, che costui era già stato processato a Lecce e a Milano per attentato al pudore e cacciato pure da Torino. Uno spirito caustico colpì pure un celebre salentino di Sannicola di Gallipoli, Achille Starace, potente segretario del Partito Nazionale Fascista. Lecce, è noto, non si fece mai trascinare del tutto dal fanatismo staraciano, specialmente quando, nel 1923, a “danno” del territorio della città, era stata creata la Provincia di Taranto prima e poi quella di Brindisi (1927). Nonostante che il clima leccese gli fosse ostile, Starace volle recarsi in visita a Lecce. Gli fu suggerito di ritirarsi nell’albergo e di non uscire. La mattina sui muri della città furono trovati questi versi: «Respira Roma quando Starace parte / esulta Taranto quando Starace arriva / Lecce, Città d’Arte / se ne frega quando arriva e quando parte». Il Pasquino leccese, ultimo di questa ironica e sarcastica genìa, non fu mai scoperto. Tra l’altro, in quei decenni a Lecce si pubblicarono diversi giornali umoristici con altissime tirature. Oggi nessuno di questi sopravvive.

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