Turismo, le aziende non trovano personale in Puglia. «Salari bassi e ritmi alti. Così il sistema implode»

Tra le criticità un contratto nazionale che resta tra i più bassi in tutta Europa

Turismo, le aziende non trovano personale in Puglia. «Salari bassi e ritmi alti. Così il sistema implode»
di Rita DE BERNART
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Lunedì 3 Aprile 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 16:39

Oltre il 40% dei giovani italiani che va all’estero a cercare lavoro non ha neanche il diploma di scuola superiore. Non solo cervelli in fuga, dunque, che rappresentano il 25% della quota che lascia il paese. Molti, anche pugliesi, svolgono oltre i confini lavori umili, molto spesso nella ristorazione. In Puglia però, come nel resto d’Italia, esiste un’emergenza personale. Non si trovano addetti, anche a fronte di proposte del tutto regolari, soprattutto per le mansioni di media specializzazione: personale di sala e cucina, receptionist, banconisti, bagnini. Gli annunci si moltiplicano, la domanda è altissima. Le risposte non arrivano.

Qual è il punto di rottura tra l’offerta di lavoro e la ricerca di occupazione? L’analisi del fenomeno per avvicinarsi alla verità e, quindi, a possibili soluzioni deve necessariamente abbandonare la retorica superficiale dei “buoni e cattivi” che vuole da una parte le imprese che sfruttano i dipendenti e dall’altra i giovani svogliati o umiliati da proposte indecenti, che tuttavia esistono soprattutto nel mondo delle micro aziende stagionali o all’interno di un fenomeno più ampio e sintomatico dell’abusivismo. Un cliché diffuso, quello degli imprenditori opportunisti, che ha minato l’attrattività delle professioni turistiche anche a danno delle imprese che investono nelle risorse umane. 

Costo del lavoro e stipendi bassi

Un dato è certo: alla base dell’impasse c’è il sistema lavorativo italiano da riformare. Il costo del lavoro in Italia è altissimo e, rovescio della medaglia, la media dei salari da contratto nazionale è tra le più basse d’Europa: circa 1200-1300 euro mensili nette anche per occupazioni che richiedono turni stancanti e grandi sacrifici; mancano inoltre concrete politiche di welfare. A questo quadro, nello specifico del comparto, si somma il fattore “stagionalità”: il turismo, per sua intrinseca natura, vive di periodi in cui è necessario implementare la forza lavoro e altri in cui l’occupazione cala. Si lavora a ritmi incalzanti e per brevi periodi.

Qui si gioca la partita: far conciliare la necessità di stabilità, il desiderio di migliorare la propria posizione e l’esigenza di vivere dignitosamente 12 mesi l’anno con la struttura del mercato che, in Puglia, come in molte regioni del Meridione, è fatto di piccole e medie imprese turistiche stagionali.

Nelle quali è anche difficile raggiungere posizioni apicali. Collante imprescindibile dovrebbe essere lo Stato con l’adozione di misure a supporto dell’occupazione stabile e della formazione. Federturismo ci sta lavorando: allo studio, sul tavolo con il Governo, ci sono già alcune proposte concrete. Ma non vanno trascurati neanche i fattori sociali, con i cambiamenti epocali generati dalla pandemia.

L'analisi

«Innanzitutto – spiega il professore Angelo Salento, sociologo dell’Università del Salento – bisogna intendersi sulla natura del problema. In linea generale, la statistica del mercato del lavoro ci dice che i lavoratori italiani, soprattutto i giovani laureati, sono sovraqualificati, cioè hanno un livello di istruzione che il mercato del lavoro di fatto non valorizza. Non c’è da sorprendersi che i principali problemi ci siano nel turismo. Nel settore turistico e della ristorazione il lavoro è particolarmente precario, faticoso e mal retribuito. Molto spesso è anche lavoro irregolare. Richiede sacrifici e rinunce, in cambio di basse retribuzioni e nessuna prospettiva. Nell’area delle attività turistiche e commerciali prevalgono unità produttive di piccola dimensione, perciò storicamente la presenza del sindacato è debole, e quindi le condizioni di lavoro sono spesso rimaste scadenti. Così, questi settori si sono consolidati come ambiti di lavoro “di serie B”. Inoltre, la competitività delle destinazioni turistiche viene giocata molto spesso proprio sul costo del lavoro. In assenza di scelte strategiche, tali comparti diventano arene di una competizione senza regole, dove abbondano comportamenti opportunistici». 

La formazione

Sotto i riflettori anche il ruolo degli Istituti alberghieri. «L’idea che la formazione offerta dagli istituti alberghieri non sia sempre soddisfacente – continua Salento- è un punto di vista diffuso fra gli operatori di alto livello. Un’offerta di grande qualità necessita di competenze e di motivazioni di alto profilo. Per questo motivo, su scala territoriale, è opportuno investire in alta formazione, come nel caso del Master in gastronomie territoriali sostenibili, in progetto a UniSalento. Sinora, però, il problema prevalente resta in buona parte la scarsa qualità dell’offerta turistica, e questo è un problema che si affronta soltanto facendo delle scelte politiche di governo del territorio, se si è ancora in tempo per farle. Non si tratta di accusare le imprese di sfruttare i lavoratori, ma il dato di fatto è che il lavoro nel settore turistico è mediamente faticoso, precario e mal retribuito. Solo il 25% dei tantissimi giovani italiani all’estero sono “cervelli in fuga”; oltre il 40% non ha neanche il diploma di scuola superiore. Fanno lavori umili, spesso proprio nel settore della ristorazione, ma preferiscono lavorare all’estero piuttosto che in Italia, perché all’estero, se lavorano bene, il loro impegno viene riconosciuto. Direi quindi che il problema non è la svogliatezza dei giovani».

Numeri e storie alla mano, però, chi è in cerca di lavoro spesso rifiuta anche proposte in regola. «Il fatto che questo problema si verifichi anche in assenza del reddito di cittadinanza – spiega Fausto Durante, salentino oggi segretario generale della Cgil Sardegna - è sintomatico di un problema di rapporto tra qualità di lavoro e salario; abbiamo un’emergenza salariale, in Italia anche nei contratti nazionali a firma sindacale non c’è gratificazione: il lavoro deve essere sempre più performante ma la spinta a mantenere il posto è poca. La media dei salari non supera i 1.300 euro al mese ed è solo di qualche centinaio di euro superiore all’importo mensile di sussidi come il reddito di cittadinanza. E ciò è assurdo. Inoltre vi è una componente psicologica: dopo il Covid c’è un meccanismo che si è spezzato. Si rifiutano anche offerte regolari perché i giovani non sono più disposti ad accettare occupazioni così stancanti, senza giorni liberi e con turni pesanti per così poca gratificazione e senza prospettiva di crescita». 
Ci sono vie d’uscita? «La soluzione – continua Durante – potrebbe essere nei contratti integrativi aziendali per superare quel gap. Tutti il sistema va tarato, le imprese del Sud hanno minore capacità organizzativa; e non ci sono servizi che consentano al lavoratore di conciliare l’attività con la vita personale e familiare. Penso ad una donna che per lavorare tutti i giorni ad esempio deve lasciare i figli piccoli e non sa dove». Anche volendo pagare di più le imprese tuttavia sono spesso schiacciate dalla tassazione. «Oltre alle politiche di welfare e conciliazione – segue ancora Durante – ci sono tre punti cardine su cui lavorare: diminuire le tasse sul lavoro a carico dell’impresa; detassare gli aumenti contrattuali e considerare non tassabili i benefici e gli aumenti derivanti dai contratti integrativi aziendali». Le imprese più strutturate e solide provano ad attrezzarsi con politiche aziendali più orientate alla valorizzazione delle risorse umane ma anche con proposte concrete da sottoporre al Governo. Consce del fatto che decenni di politiche e atteggiamenti sbagliati abbiano minato l’attrattività del settore. 

La richiesta

«C’è bisogno di riordinare il settore – dice Marina Lalli, presidente nazionale di Federturismo Confindustria –. C’è oggi una scarsa attrattività; un po’ ce la siamo cercata, con le proposte assurde di alcuni, ma in buona parte siamo anche vittime di una narrazione che ci ha penalizzato, incollandoci l’etichetta del lavoro precario e pagato male che si svolge in prevalenza quando gli altri si divertono. È vero, si lavora tanto in orari scomodi, ma la nostra è anche un’occupazione appagante che porta a conoscere tante persone, a parlare le lingue, a relazionarsi con gli altri e le altre culture. È per questo che andrebbe rivista anche la formazione per i profili più comuni; indirizzando già le competenze a specifiche mansioni. Certo è che, soprattutto in Puglia, la maggior parte delle imprese sono stagionali. In queste settimane abbiamo aperto un tavolo di lavoro con il ministro Daniela Santanchè: tra le proposte c’è quella di esonerare l’azienda che mantiene le assunzioni, anche nei mesi di bassa stagione o chiusura, dal pagamento dei contributi. O anche istituire il reddito di formazione: in questo modo ai giovani verrebbe offerto un compenso nel periodo invernale durante il quale si specializzano. Un investimento nella professionalizzazione che potrebbe aiutare le aziende ad investire per modificare la propria struttura e dare lavoro a più persone e per più mesi. Alcuni di noi peraltro, va detto, già pagano tutto l’anno figure chiave come chef, direttori o capi ricevimento, per non perderli. Va cambiato poi il paradigma della narrazione: l’addetto di sala è lo specchio dell’azienda, oggi si pensa al cameriere come occupazione di serie B. Riguardo alla pur comprensibile esigenza di migliorare la propria posizione, ciò è più facile se si è seguito un percorso specifico e qualificante e sicuramente è più semplice dall’interno».
Insomma mentre i job day si moltiplicano, gli ultimi a Lecce e Gallipoli, per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, la partita si gioca anche sui tavoli dei piani alti. La storia insegna: arroccarsi su posizioni integraliste non porta alla soluzione. La virtù sta nel mezzo. E in un sistema nazionale del lavoro che metta al centro il lavoro stesso non solo come mezzo di sostentamento ma soprattutto come fonte di gratificazione personale.

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