L'intervista/ Romano (infettivologo):«Paura e coraggio con le nostre tute. Pronti a combattere un'altra guerra»

L'intervista/ Romano (infettivologo):«Paura e coraggio con le nostre tute. Pronti a combattere un'altra guerra»
di Maddalena MONGIÒ
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Domenica 1 Novembre 2020, 10:51 - Ultimo aggiornamento: 13:01

«Abbiamo avuto paura, oggi sappiamo cosa fare». Efficace sintesi quella di Anacleto Romano, direttore del reparto di Malattie infettive del Vito Fazzi di Lecce, ormai corsia a senso unico verso il Covid, che spiega preoccupazione, ansie, impegno, della sua squadra speciale, in questo ritorno in trincea.
Direttore Romano, in questa seconda ondata cosa cambia per voi rispetto alla prima?
«Sappiamo come trattare i pazienti e abbiamo superato la grande paura che abbiamo dovuto affrontare nella prima ondata perché non si sapeva sino a che punto si rischiava. Oggi abbiamo preso le misure, sappiamo come trattare i pazienti, cosa dobbiamo fare e cosa non dobbiamo fare. Abbiamo acquisito pratica sulle procedure di vestizione e da questo punto di vista siamo più sereni, ma non da quello lavorativo. Sono pazienti che ci impegnano molto perché è difficile il contatto con il malato in quanto ci presentiamo da loro bardati con le tute protettive».
Perché il contatto con questi pazienti impone la vestizione che invece non è fatta per altre malattie infettive respiratorie come, ad esempio, la tubercolosi?
«Siccome il contagio avviene per via aerea e per contatto si ritiene necessaria la protezione massima che invece non osserviamo per la tubercolosi che è una malattia che conosciamo da decenni e per la quale abbiamo terapie efficaci. Certamente con i pazienti affetti da tubercolosi ci proteggiamo con le Ffp3. Per il Covid il protocollo impone che si debba essere bardati quando si è a contatto con il paziente. Dal mio punto di vista tutto questo è eccessivo perché basta proteggere le vie respiratorie e gli occhi, poi chiaramente è importante la disinfezione delle mani, ma il fatto che sia un'infezione nuova, che conosciamo poco spinge ad avere la massima prudenza».

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In questa guerra, come qualcuno la definisce, quante volte ha dovuto e deve incoraggiare i suoi medici e i suoi infermieri?
«È una guerra perché c'è molta paura. C'è ignoranza da parte di molti, nel senso che molti sottovalutano il rischio di infezione e c'è anche un eccesso di paura da parte di chi conosce e mi riferisco al personale sanitario. Appena sentono Covid, scoppia il finimondo. In realtà è un malato come gli altri: sappiamo come la malattia si trasmette e come proteggersi. Poi spesso incoraggio i colleghi e gli infermieri perché siamo sotto stress da troppo tempo. Danno forza al team i giovani medici e i giovani infermieri: ventidue su venticinque in servizio, di prima nomina e con tanta voglia di fare».
Quanti pazienti sono al momento ricoverati nel suo reparto?
«Ho quaranta posti letto, ma ce ne sono liberi ancora quattro e giornalmente un paio li dimetto per cui c'è un certo ricambio anche perché le ultime disposizioni regionali consentono la dimissione anche con un solo tampone negativo. Possiamo dimettere anche con un tampone positivo qualora il paziente sia asintomatico si passa all'isolamento domiciliare». Rispetto alla prima fase registrate meno decessi. Qual è la ragione?
«Per fortuna, sì. I pazienti sono più giovani, mentre nella prima fase abbiamo avuto ultrasettantacinquenni e ultraottantenni per i quali l'età stessa rappresentava un problema. Ora abbiamo un'età media di 55 anni, con una risposta immunitaria diversa. Non esiste un farmaco che uccide il Covid-19, ma abbiamo imparato a utilizzare quelli che un certo effetto fanno. Abbiamo calibrato i tempi di somministrazione. Ad esempio il cortisone che nella prima fase era bandito da piano terapeutico, va dato subito con dosi alte e per breve tempo perché abbassando le difese immunitarie può aiutare la replicazione del virus. Così è anche con altri farmaci, tipo l'antivirale che va dato subito nella prima fase quando il paziente non ha ancora un quadro di insufficienza respiratoria».
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