«Gas e rinnovabili, la transizione richiede autorizzazioni più snelle»: a confronto con il presidente Enel, Michele Crisostomo

«Gas e rinnovabili, la transizione richiede autorizzazioni più snelle»: a confronto con il presidente Enel, Michele Crisostomo
di Francesco G. GIOFFREDI
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Sabato 24 Luglio 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 15:45

Michele Crisostomo, presidente Enel, salentino: una delle missioni del Pnrr riguarda “rivoluzione verde e transizione ecologica”. Sul piatto ci sono 68,6 miliardi, gli obiettivi sono ambiziosi, ma il tempo è poco. È possibile cambiare paradigma e politiche, in prima battuta energetiche, in un arco temporale tutto sommato ridotto?
«Il cambio di paradigma è necessario. Se si innesca una rivoluzione politica, culturale, amministrativa, allora diventa effettivamente possibile. La pandemia ha accelerato un processo già in atto, a cominciare proprio da Enel: basti guardare alla nostra strategia degli ultimi anni, in base alla quale abbiamo sviluppato un piano ambizioso con una visione da qui a 10 anni, al 2030. Il nostro impegno è generare investimenti per 190 miliardi, puntando sulla transizione energetica. L’impatto sul Pil sarà di 240 miliardi di euro nei Paesi in cui Enel opera. In aggiunta poi al nostro piano, abbiamo definito ulteriori iniziative e investimenti legati al Recovery plan che avranno l’effetto di accelerare la transizione energetica e generare un impatto addizionale sul Pil».


Su quali leve punta il vostro piano e come interseca il Pnrr?
«Il Pnrr, come anche il nostro piano, presuppone che per decarbonizzare sia necessario elettrificare i consumi, generare elettricità da rinnovabili ed è essenziale che questa energia circoli attraverso reti intelligenti. Sono questi i pilastri della transizione energetica».


Lo stesso ministro Cingolani pianta però i piedi per terra e parla di «transizione graduale», avvertendo: la transizione potrebbe costarci «un bagno di sangue» in termini occupazionali. Toni eccessivi?
«Non è un tono preoccupato, ma pragmatico. Non possiamo perdere di vista un aspetto: la transizione comporta anche dei costi, ma il Paese ne trarrà grande beneficio anche sotto il profilo occupazionale. Tra costi e benefici, la bilancia è a favore senz’altro di questi ultimi. Il punto è come si affrontano i costi. Guardo ancora a Enel: la riconversione comporta per noi la chiusura di alcune centrali, la riconversione di altre, lo sviluppo delle rinnovabili e di nuova tecnologia. Enel non lascia indietro nessuno, saranno offerte opportunità per adattare le professionalità ai nuovi mestieri che vengono fuori dalla transizione energetica, e ce ne sono tantissimi».


Lo “spegnimento” delle centrali a carbone passa in prima battuta da Brindisi. Proprio in queste settimane Enel ha presentato al ministero della Transizione il piano per il phase out entro il 2025. Ritenete di poter rispettare quel termine?
«Siamo impegnati con tutte le nostre forze a rispettare quella scadenza: pensiamo di poter realizzare il piano. Abbiamo in piedi un procedimento autorizzativo per capacità flessibile a gas. Siamo consapevoli che l’iter va affrontato e che ci sono dei ritardi, ma faremo di tutto perché questa scadenza sia rispettata».

Questo per quanto vi riguarda. Ma intanto la riconversione a turbogas degli impianti brindisini è appesa alla Via ministeriale in ritardo. Dal direttore Carlo Tamburi è già arrivato l’appello a velocizzare. Avete chiesto a Cingolani un’accelerazione?
«La nostra volontà è rappresentata in tutte le sedi ed è molto ben presente al ministro e a tutto il governo. È un progetto complessivo di riconversione nell’interesse di tutta l’Italia e degli obiettivi di transizione ecologica, non ci sentiamo abbandonati dal governo».


L’eccesso di burocrazia e di autorizzazioni rischia di zavorrare e intralciare la transizione ecologica? Anche questo è un tema sollevato dallo stesso Cingolani. Le Via spesso non hanno un orizzonte di tempo certo.

«È un problema sentito dal ministro così come da noi, ovviamente. È “il” problema....

Bisogna necessariamente intervenire».


Il gas è la strategia “ponte” e l’idrogeno in tal senso è la priorità. Idrogeno verde, però, cioè prodotto da rinnovabili: non si prescinde da questo punto?
«Per noi è un punto essenziale, altrimenti vorrebbe dire rimangiarsi tutto ciò che diciamo sulla transizione. L’idrogeno non può che essere verde, e va impiegato soprattutto nei settori “hard to abate”, come cemento, fertilizzanti, chimica, settori nei quali non è possibile completare l’elettrificazione. Nell’arco di una decina d’anni l’idrogeno verde può peraltro diventare economicamente sostenibile».


Il gasdotto Tap contribuirà al processo di decarbonizzazione: Enel è acquirente di quel gas. L’opera però è stata contestata sul territorio.
«È uno dei classici esempi di sindrome Nimby. Se guardiamo oggi qual è l’impatto, forse c’è stata un po’ di sproporzione tra reazione espressa dalle comunità e impatto dell’opera: gli alberi sono stati ripristinati, la marina di Melendugno non ha perso la sua meraviglia e ha conservato la bandiera blu. Il Tap, nel quale peraltro Enel non detiene alcuna partecipazione, è un’opera strategica, il gas sarà l’ultimo combustibile fossile a scomparire ed è una strategia “ponte”: avere questa ulteriore fonte è una grande opportunità».


Cosa sta accadendo alle rinnovabili, su cui da tempo puntate? Le aste pubbliche Gse per fotovoltaico ed eolico vanno quasi deserte. E sui territori, a cominciare dal Salento, si moltiplicano i “no” ad impianti di vasta estensione.
«Le aste Gse sono andate deserte non perché le rinnovabili non hanno appeal, ma perché – e torno al tema delle autorizzazioni – è mancato un processo di rigenerazione della pipeline dei progetti, a causa delle lungaggini burocratiche. Gli iter farraginosi comportano un’effettiva vischiosità allo sviluppo delle rinnovabili».


E torniamo così al nodo burocrazia. Quanto invece alla percezione generale delle rinnovabili?
«Bisogna sgombrare il campo da pregiudizi: il Paese non verrà certo ricoperto per intero di pannelli e pale. Ogni impianto si valuta in base all’impatto che avrà sul territorio, né si sottrae spazio all’agricoltura, per una ragione semplice: la capacità da rinnovabili attesa nel 2030 in base al Pniec prevede l’occupazione dello 0,5% della superficie complessiva del Paese. Una piccolissima parte su un territorio variegato, ricavabile senza sottrarre spazio a nulla, o magari integrando energia e agricoltura con progetti ad hoc, o ancora puntando sul repowering dei parchi da rinnovabili già esistenti».


Proprio il Mezzogiorno e la Puglia hanno quote “dominanti” nella produzione di energia da sole e vento. Un primato che tuttavia spesso non si traduce in alcun dividendo sui territori.
«La Puglia è un territorio nel quale l’Enel ha sviluppato un progetto per una rete intelligente: il Puglia active network. Sono le reti che permettono agli impianti rinnovabili di portare dividendi sul territorio. Il dividendo sta nel fatto che l’energia si può utilizzare in modo intelligente, limitando gli sprechi, compensando le intermittenze delle rinnovabili, facendo sì che un territorio sia esportatore di energia grazie a risorse – come sole e vento – qui decisamente abbondanti e disponibili».


Il Mezzogiorno saprà cogliere l’opportunità del Pnrr? In troppe occasioni il Sud ha sprecato la chance: è un’ultima chiamata? Per rispondere “presente” cosa deve cambiare?
«È una chiamata decisiva, non so se è l’ultima, per immaginare un’idea di sviluppo del Sud perfettamente compatibile con i punti di forza. Penso al turismo sostenibile. O alla frammentazione dei luoghi di lavoro determinata dalla pandemia, che ha dato la possibilità di ricreare comunità lavorative prescindendo dalla concentrazione fisica: questo permette al Sud di mettere a frutto la capacità di “far vivere bene le persone”, diventando luogo di localizzazione di centri di produzione, ricerca, sviluppo. Insomma: il nostro humus culturale va tradotto in opportunità. Ma bisogna essere rigorosi, non basta il denaro del Pnrr. Il cambio di passo è fondamentale. Ai nostri punti di forza bisogna affiancare una consapevolezza adulta su competenze, professionalità, ricerca, ascolto, studio, una mentalità europea, che unisca al “bello” il “perfetto”».


Il metodo, le classi dirigenti, l’impostazione nella spesa: cosa è andato storto fin qui al Sud?
«Sono mancate un’idea forte di ciò che poteva essere e la capacità di portarla avanti con convinzione, magari intrappolati nella sindrome di chi si sente sempre escluso. E questo al di là dei mali atavici del Mezzogiorno. Ora però l’occasione è rilevante: la traiettoria che ha preso l’Europa si incentra su vento, sole, sviluppo sostenibile, tutte caratteristiche del Sud, che può mettersi su un binario diverso ma parallelo a quello del Nord, che è suo fratello; una doppia corsia su cui l’Italia avrà la possibilità di correre il doppio».

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