Buffa: «Il turismo sarebbe scomparso se non avessimo ripristinato la legalità»

Mario Buffa
Mario Buffa
di Erasmo MARINAZZO
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Domenica 10 Aprile 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 11:05

«Il turismo, che già nel 1994 era in sviluppo, sarebbe scomparso se non avessimo ripristinato la legalità. Invece si è consolidato e sviluppato anche con risultati imprevedibili all’epoca. Quando il piccolo salumiere pagava il “pizzo” come le grandi discoteche. Oggi non credo sia più così, la situazione è molto cambiata, non c’è più l’associazione sanguinaria che destabilizzava la vita delle persone e delle istituzioni». Mario Buffa è il giudice che per primo riconobbe l’accusa di associazione mafiosa alle organizzazioni criminali dilagate nel Salento negli anni ‘90. In pensione da circa dieci anni dopo il mandato da presidente della Corte d’Appello distrettuale di Lecce, Mario Buffa oggi si sente spettatore dell’evoluzione del tempo, senza tuttavia avere abbandonato la capacità di analisi e di critica che tenevano alta l’attenzione durante l’esposizione della relazione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.

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Lei ha istruito gran parte dei processi d’appello di mafia. La presenza di tanti clan e la violenza delle loro manifestazioni vi fecero temere un dilagare incontenibile?
«No, questo no, ma è vero che la mafia fino ai primi anni ‘90 era un fenomeno sottovalutato.

Ciò accadeva perché prima la giustizia penale era considerata la giustizia dei poveri e non solo nel Salento. Sul territorio nazionale furono il terrorismo e gli attentati allo Stato della mafia a imprimere una svolta. Nel Salento la svolta la diede l’attentato al treno Lecce-Zurigo: sarebbe stata una strage se il treno fosse partito in orario ed invece aveva uno-due minuti di ritardo, un miracolo per la nota mancanza di puntualità dell’epoca. La bomba esplose prima, i binari furono squarciati, ma il treno - arrivato poco dopo - riuscì a superare l’ostacolo. Diversamente la forza d’urto l’avrebbe distrutto. Fu la presa d’atto dell’esistenza di questa organizzazione sanguinaria che tuttavia era già in crisi perché Pino Rogoli era malvisto in quanto aveva ammesso l’esistenza di questa organizzazione anche se - come sosteneva lui - solo a tutela dei detenuti. Poi le due bombe al tribunale, una durante il processo per mafia, ed una alla questura: una strategia che puntava a creare una situazione di incompatibilità, siccome si era capito che il processo sarebbe andato avanti. Si puntava a creare turbamento ambientale».

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Qual era la percezione della gente comune?
«Le persone erano molto allarmate dalle bombe, è vero che gli attentati non mancavano in Italia ma erano di altra matrice. Il treno Lecce-Zurigo era stipato di migranti di rientro in Germania, erano i primi giorni di gennaio del 1992, gente che aveva sacrificato affetti, famiglia ed amicizie per il lavoro e che si trovò coinvolta in un attentato di matrice mafiosa. Per non dire di tutti gli omicidi che si susseguivano, quasi uno ogni due giorni: la mattina aprivi il giornale per leggere di chi fosse stato ammazzato e perché. E poi c’erano i taglieggiamenti che facevano alle discoteche, le più esposte e le più disponibili a pagare. Anche i piccoli commercianti subivano estorsioni, anche se resto convinto che questo fenomeno non sia mai emerso completamente. Con i maxi processi la città in alcuni momenti della giornata sembrava militarizzata, ma i leccesi ed i salentini accettarono queste limitazioni perché finalmente si faceva giustizia».


Le indagini ed i processi di oggi dicono della persistenza nel Salento delle associazioni mafiose. Cos’è cambiato?
«Premetto che sono ormai dieci anni che non mi occupo di questi fenomeni, detto questo, è indubbio che oggi certe manifestazioni violente sono ormai piuttosto rare. Se non ricordo male l’ultimo omicidio di mafia si è consumato a Casarano nel 2016, sei anni fa. Realtà che generarono guerre come quelle degli anni ‘90 non esistono più. Merito dei processi se quel tipo di delinquenza è stato isolato. Rimasi particolarmente colpito dallo scontro che si consumò a casa di Gianfreda, una masseria in campagna, con le guardie armate appostate sui torrioni. Un gruppo avversario cercò di aggredirlo, come nel Medioevo. Un’altra epoca, un altro Salento. E oggi fortunatamente non ci sono più persone uccise perché testimoni di omicidii di mafia».


Ci sono opinioni divergenti sulla reazione avuta dalla popolazione salentina ai fenomeni mafiosi.
«Abbiamo vissuto un momento molto particolare, al maxi processo in pochi collaborarono. Ricordo il caso di una madre il cui figlio era stato ucciso. Il ragazzo prima di uscire da casa si tolse la catenina d’oro, regalo forse del battesimo o della prima comunione, e gliela consegnò consapevole che potesse non fare più ritorno. Quando interrogammo la mamma - la mamma, non un cittadino qualsiasi - disse di non sapere nulla. Le feci osservare di avere lo scrupolo di fare qualcosa per suo figlio. Mi rispose: per fare queste cose c’è la polizia. A Lecce ed a Brindisi c’erano i banchetti per la vendita di sigarette di contrabbando importate parallelamente dal Montenegro come se ci fosse un secondo Monopolio di Stato e sembrava una cosa normale, i clienti erano le persone di tutti i ceti sociali ed economici. Devo dire anche che la giustizia penale era poco efficace, si occupava di fatti bagatellari perché era la giustizia dei poveri. Quel processo fece rinascere nei cittadini la consapevolezza che la giustizia esistesse: 29 condanne tutte confermate in Cassazione. Conservo ancora gli articoli del vostro giornale. Gran parte di quegli imputati ha scontato la pena, mi fermano per strada e mi salutano, qualcuno ha cambiato completamente vita come Fulvio Rizzo, diventato cuoco a cinque stelle. Claudio Conte si è laureato, mio figlio ha fatto pubblicare la tesi, ma non riesce ad avere un giorno libero perché in regime di ergastolo ostativo: ingiustamente perché chi è entra in carcere a 18 anni dopo 20 anni non sa più nulla. Anche Marcello Dell’Anna si è laureato e va in giro a fare convegni di procedura penale».


Gli analisti del crimine sostengono una metamorfosi della Scu orientata verso l’economia e la politica. Conviene?
«Credo che alla base di tutto ci siano i comportamenti dell’uomo e certe pratiche consolidate. L’amicizia intesa nel peggiore modo di intendere, la permeabilità alla corruzione: è lì che il mafioso trova terreno fertile. È una delinquenza diversa, non ammazza ma fa intimidazioni per sostenere questo o quell’imprenditore o questo o quel politico. Non ho elementi per parlare oggi di infiltrazioni mafiose ma ricordo che l’ultima intervista di dieci anni fa dicevo che nei lavori pubblici c’era ancora carenza di indagini. Sono ancora convinto che ci voglia più coraggio e più fermezza per scoprire il legame fra delinquenza e il mondo degli affari. Bisogna crederci, fino in fondo: fui nominato presidente per l’assegnazione delle case popolari perché le graduatorie restavano bloccate in attesa delle campagne elettorali. Ci vogliono mezzi e competenze. E coraggio».

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