Visti da (molto) vicino/ Ascalone
Quel gran pasticcio che ha fatto storia

Andrea Ascalone con il figlio, Davide
Andrea Ascalone con il figlio, Davide
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 23 Marzo 2014, 19:02 - Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 17:56
Questa la porta del tempo in un luogo incantato. Le meraviglie sono dietro, e neppure a portata di mano. L’olfatto precede la vista. Qui sono i sensi a dare sostanza, prima che il palato, poi la gola, cedano di colpo al deliquio. La strada diventa budello, il selciato raccorda la vita. Le vetrine dicono ma non svelano; oltre le tendine c’è un mondo da scoprire. Il sole è in attesa, sopra la torre campanaria. Le ombre guidano e confondono. Non è vertigine: il passato diventa storia solo quando ha cose da raccontare, tante, tutte assieme. Perciò stordisce. Questa porta è un inganno: il varco è già un altrove, apre all’immaginazione. Settecento, Ottocento, Novecento. Tutto ora, tutto qui. Lasciate ogni speranza, di resistere, voi ch’entrate.



Io sono innamorato

di tutte le signore

che mangiano le paste

nelle confetterie.

Signore e signorine -

le dita senza guanto -

scelgon la pasta. Quanto

ritornano bambine.




L’indirizzo è un luogo della memoria. Pasticceria Ascalone. Lo dice l’insegna. I pochi dolcetti esposti fuori. Il cartellino col prezzo. Cadauno, si intende. Va specificato: la differenza fa mille euro. Un giorno si presentano due militari, guardano, controllano. E poi infilano in contropiede: il tariffario non specifica che sia a pezzo. «E per un euro e 40 cosa vorreste avere: un vassoio? la pasticceria in blocco? le persone che ci lavorano dentro?». Andrea Ascalone sgrana gli occhi, allarga le braccia e intona contumelie come fossero do di petto. Vibra. Potrebbe fare qualsiasi cosa, visto ovunque ma non qui: l’attore, il cantante, il politico. Arringa, motteggia, scuote la testa. Ha 75 anni. «Era inevitabile si arrivasse a tanto. Questa crisi è fisiologica. I giovani, i giovani… Si depilano, pensano a fare flessioni. E non fanno neppure quelle giuste, le uniche che varrebbe la pena…». L’avambraccio caricato a salve non lascia spazio agli equivoci. È lui, non c’è dubbio. Il personaggio è già leggenda. Lo sa, finge di schermirsi. È il custode di un’arte antica datata 1740, sempre qui, nel cuore di Galatina. Stesso nome e cognome. Se la tramandano di padre in figlio. Lui è la nona generazione. Il tempo è una dimensione sospesa, qui dentro. Non puoi dire che anno sia. E quale giorno.



Perché nïun le veda,

volgon le spalle, in fretta,

sollevan la veletta,

divorano la preda.

C'è quella che s'informa

pensosa della scelta;

quella che toglie svelta,

né cura tinta e forma.




Pareti rosse, candelabri, lampadari, legni scuri. Due tavolini 1911. Quattro sedie. Specchi tutt’intorno. Pavimento a scacchi, bianco e nero. Uno scrigno. Il bancone a onda, in marmo chiaro, è l’altare su cui officiare il rito. Il pasticciotto è nato qui. Detto. Altrove menano vanto. E sfornano. E contaminano. Qui quello è, da sempre. Pochi pezzi, latte pastorizzato, uova da galline che razzolano bene e mangiano meglio, a terra, da anni lo stesso allevamento. «La semplicità è la perfezione». Gesti che si ripetono. Ogni giorno. Da decenni. Da secoli. Tenere a mente: nel 2015 saranno 270 anni. Dunque, era il 1745: festa dei Santi Patroni, a “Lu Scalune” avanza della pasta, non ci può fare molto. Né taralli né altro. Ci mette della crema, copre tutto e inforna. Un mezzo pasticcio. Il nobile proprietario del palazzo in cui trova affitto la bottega, don Silvestro Mezio, assaggia e trasecola: meraviglioso. Duecentosettant’anni. Come oggi. Uguale: meraviglioso. Entrano due donne. Forse madre e figlia. Un cenno d’intesa e arrivano due pasticciotti.



L’una, pur mentre inghiotte,

già pensa al dopo, al poi;

e domina i vassoi

con le pupille ghiotte.

Un'altra, con bell'arte,

sugge la punta estrema:

invano! ché la crema

esce dall'altra parte!




«Il business... È una malattia!», tuona l’anfitrione. Il figlio, Davide, 48 anni, da 35 si muove in scia. Decima generazione. Il terzo e ultimo componente del laboratorio è Vincenzo (undicesima), figlio di Sabrina, la primogenita di Andrea. Loro, i maschi, dietro a impastare, infornare e custodire il segreto; le donne davanti a servire. Sabrina, ma anche l’altra sorella, Maria Cristina, e la moglie di Davide, Elisa. «Una malattia è, il business! Ci sono alcuni, non tutti, perché qui la qualità è alta, che sfornano prodotti a fiumi e chissà cosa mettono dentro. Supermercati che vendono di tutto e a prezzi impossibili. E tu passi per ladro». Avrebbero potuto fare del marchio una macchina da soldi. «Ma tra papà e il denaro passa l’oceano», spiega il figlio, sulla carta il nuovo proprietario. «Io ho preso da lui: finché ci sarò, non cambierà nulla». Per dire, il giorno di San Giuseppe niente zeppole. «Per farle come si deve ci vogliono almeno sei persone. E noi siamo tre». Il locale non esibisce nulla. Si chiede e i dolci spuntano per magia. Freschi, nel senso di caldi, direttamente dal laboratorio. Il giovanotto è cresciuto a pasticciotti («anche 20 da mattina a sera, quando ero ragazzo e lavoravo già qui». Ora uno e non di più). Sarà il fisico, i capelli neri («che non tingo»), lo sguardo vispo, viene facile pensare che la specialità della casa faccia bene alla salute. Così, giusto per darsi un alibi se la gola è uno dei vizi. L’ultimo arrivato, molto più giovane, molto più aitante, comunque ne è la conferma. Pasta frolla e crema pasticcera sono attrazione fatale. Per i geni sicuramente. Ma anche per il buon senso: Vincenzo ha laurea triennale in agraria, ma non s’è posto dubbi.



L'una, senz'abbadare

a giovine che adocchi,

divora in pace. Gli occhi

altra solleva, e pare

sugga, in supremo annunzio,

non crema e cioccolatte,

ma superliquefatte

parole del D'Annunzio.




A guardare stampe e quadri pensi a un nostalgico. A suo modo Andrea Ascalone lo è, ma di sponda comunista. «Siamo figli della cultura greca e cattolica. E del diritto romano. Dove vuoi andare con questo intreccio?». Non che dall’altra parte se la siano passata meglio. Ma sia. L’uomo semplicemente se ne frega. Fa di testa sua. Insofferente a qualsiasi autorità. Nel 1959 scappò dall’Italia la notte prima di partire al militare. «Troppe regole. Alla visita a Lecce, al distretto, nel castello, un maresciallo mi fece le pulci prima di farmi uscire. Era mio diritto, ma lui niente: tosto! No, no: non era per me». Nord Europa, nord Africa. Libia. Dieci anni a fare il pasticciere in giro per il mondo. Poi il rientro. «All’esame in Camera di commercio mi presento col camice per dare dimostrazione della mia arte. Cominciano a farmi domande su farine, crostacei, pesci... Ehi!». Lo bocciano. Poco ci manca che non mandi tutti al diavolo per altri dieci anni. Torna la volta successiva, ottiene la licenza. «Non sappiamo mantenere i tesori che abbiamo. Qui in centro c’è l’abbandono. Su questa strada siamo rimasti in sei. Anche la Taranta, che ha avuto a Galatina il fulcro della sua storia, ora risplende altrove. La Taranta: donne costrette a lavorare per ore nei campi, in piena estate. Certo che impazzivano. Ma una di loro capì bene, e subito, come guarire». Innesca di nuovo l’avambraccio. L’eloquenza è un’arte. «Ogni giovedì attendeva l’amante dietro la chiesetta di San Paolo».



Perché non m’è concesso -

o legge inopportuna! -

il farmivi da presso,

baciarvi ad una ad una,

o belle bocche intatte

di giovani signore,

baciarvi nel sapore

di crema e cioccolatte?




Il resto è narrazione intorno al mito. Ascalone che non dà i pasticciotti se poi devono arrivare freddi a destinazione. Che prima ti squadra da cima a fondo e poi decide se servirti o cacciarti in malo modo. Che insomma qui non è come altrove. È un po’ tutto vero, e l’ultima asserzione soprattutto. Però alla leggenda va sempre fatta la tara. «Sì, è così - ammicca Davide -. Papà ci tiene al suo lavoro e ai suoi dolci. Ma c’è molta fantasia in quello che si dice. Se uno viene a prendere una guantiera per portarla a Milano lui avvolge le paste con una sana avvertenza: quando arriveranno non saranno buone come appena uscite dal forno. Però quando si esagera si esagera: una volta un signore venne a ritirare una torta; aprì il bagagliaio per riporla ed era tutto sporco di terra. Beh, sì: quella volta papà fu categorico. La torta in questa macchina non entra, gli disse. E lo mandò via». Non ha mai svelato la sua ricetta. Mai raccontato la genesi di un dolce tanto osannato. E non chiedetegli dei clienti, poi. Chi sono, da dove vengono, chi spicca tra loro. Muto. Gli scappa solo un nome, il premio Nobel José Saramago. Ma per via di una certa affinità nell’indole battagliera. Una mezza giornata insieme, prima che morisse. Il resto sarebbe vanità. E non è questo il luogo.



Io sono innamorato di tutte le signore

che mangiano le paste nelle confetterie.












Ventesima puntata (i versi citati nel testo

sono tratti da "Le golose" di Guido Gozzano).

Negli incontri precedenti:

- Paolo Perrone

- Dario Stefàno

- Roberta Vinci

- Massimo Ferrarese

- Elenonora Sergio

- Mario Buffa

- Antonio Conte

- Giuliano Sangiorgi

- monsignor Filippo Santoro

- Fabio Novembre

- Flavia Pennetta

- Maurizio Buccarella

- Emma Marrone

- Ennio Capasa

- Giancarlo De Cataldo

- Vincenzo Zara

- Albano Carrisi

- Teresa Bellanova

- Ferzan Ozpetek
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