Visti da (molto) vicino/ Santoro: don o dom, la santità con l'aroma del caffè

Visti da (molto) vicino/ Santoro: don o dom, la santità con l'aroma del caffè
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 22 Dicembre 2013, 18:14 - Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 19:16
TARANTO - Monsignore un vescovo che un prete che ha scarpe e suole da consumare. Lo schema tracciato. Al di fuori di questo c’ solo apparato, retorica. Riproposizione stanca di norme, precetti. Divieti. Autoreferenziali e perci inutili. Senza profezia c’è solo clericalismo: le parole di papa Francesco conferiscono validità alla scelta. In fondo la promessa - che volete - ritorna dalla notte dei tempi: “Sarò con voi fino alla fine dei giorni”: così e solo così l’abbraccio - fraterno e perciò evangelico, molto umano, molto divino - si fa nelle parole e nei gesti messaggio da vivere e condividere istante per istante, non vuota formula di benvenuto a bordo, tipo “prego, salite, tenetevi forte, sarà un’esperienza fantastica”. La Chiesa del passo deciso, pochi fronzoli molta sostanza, umile e perciò vera, vicina nel senso di prossima, senza che prossimo sia annuncio di nuovi avventi, di altre attese, e quindi di ulteriori rinvii, ecco: la Chiesa, questa Chiesa, si muove così. Semplicemente. Spontaneamente. Da quando è a Taranto, monsignor Santoro (o don Filippo, che poi suona meglio) ha perso anche peso. E consumato scarpe, ovvio.



Marciare marcia.
Le tempeste giudiziarie, le bufere meteorologiche... Ogni avversità una mobilitazione che diventa corteo. E lui sempre lì, pronto, in testa. Ci vuole il fisico per sorreggere la forza di spirito. Ma il segreto, se proprio, non è solo quello. Il regime alimentare rigoroso accompagna la sua esperienza pastorale. Essere vicini al popolo (che poi, stringi stringi, il punto di svolta è questo) ha implicazioni non solo ecumeniche, ma anche gastronomiche. Il prelato s’è dato regola pressoché monacale, sebbene non maniacale, per non cedere alle lusinghe del prelibato. E perciò niente eccessi. Ne beneficia l’attivismo, ne guadagna la linea. Ma non arrovellatevi il cervello su come ammannire il desco. La prova del nove si fa alla fine. Al caffè, ad esempio. Ventisette anni di servizio in Brasile portano in dote, oltre al lascito civettuolo di firmarsi ancora “dom”, anche questo: un olfatto raffinato, un gusto spiccato. Per il calcio, ad esempio. E ci mancherebbe: all’ora del “derby del cuore”, tra azzurri e verdeoro, lui nato in Puglia ma cresciuto in fede e carità a ridosso delle favelas, lì sul balcone del suo episcopio spuntavano immancabili le bandiere delle due nazionali a garrire l’una accanto all’altra, separate dall’afflato pacificatore - ma in sospetto fuorigioco - del vessillo vaticano. Certo, il calcio... Ma gusto e olfatto, affinati e temprati nell’esperienza carioca, hanno applicazioni anche più terrene e, all’occorrenza, decisamente sensuali: il caffè, appunto. Se non volete che monsignore si congedi da voi con ricordi meno che sublimi per delizia palatale, non sbagliate la tazzina. Sobrietà per il cibo. Morigeratezza per il vino, per lo più rosso, meglio se pugliese. Ma il caffè, quello no: sia fatto come in alto, molto in alto, si comanda.



Carica di energia. Scarpe da consumare. Borsa con l’essenziale. Ricorda qualcuno? «La leggenda vuole che Taranto sia venuta prima; prima di qualsiasi cosa», racconta don Emanuele Ferro, portavoce dell’arcivescovo e da anni direttore di “Nuovo Dialogo”, la rivista della Curia. «Da sempre è così: dalla Magna Grecia in poi la città si porta addosso questo destino che diventa presagio. Precorrere i tempi, viverne in anticipo i fasti ma anche i disastri. Così ora: attraverso monsignor Santoro Taranto ha sperimentato con un anno di anticipo l’elezione al Soglio Pontificio di Jorge Bergoglio; ha conosciuto da vicino il tempo nuovo della semplicità, della vicinanza alla gente, del contatto fisico e umano, del disagio sociale che diventa il campo aperto del confronto personale. Disponibilità, sorriso, dialogo. Semplicità. Vicinanza. Hanno molto in comune, don Filippo e papa Francesco». A partire dalla stessa idea di pastorale.

Hanno lavorato insieme lungo le sponde vaste dell’America Latina, uno in Argentina e l’altro in Brasile, poli opposti e ad alta tensione di un conflitto su cui, tra miseria e impegno, s’è avvitata una teologica pratica che ha alzato gli argini per contenere la disperazione e tradurla in speranza. Trasformarla in riscatto. Ritrovarsi uno accanto all’altro, giovedì, in Vaticano, mezzora da soli in udienza privata, a discutere di Taranto, delle sue povertà, delle sue ricchezze, delle mille contraddizioni che avviluppano il panorama nelle maglie strette del codice penale, nel cappio che scorre lungo l’opposizione tra salute e lavoro, deve aver riportato entrambi al passato più o meno recente. L’esperienza è il futuro quando nessuno se l’aspetta. Loro l’hanno già declinata con l’accento della promessa pronunciata da Francesco: «Verrò a Taranto».



L’impegno è preso. Non c’erano dubbi. Parlano la stessa lingua di un Signore che ti viene incontro. Ti incoraggia. Ti sostiene. «Monsignor Filippo lo ripete sempre – racconta il suo portavoce -. Prima dei programmi e del fare c’è l’incontro. Il dialogo». Lui lo chiama così, per nome. Come lo chiamò il papa, sorprendendo don Emanuele. Era il 1° maggio scorso, il giovane sacerdote partì da Taranto con 500 pellegrini. Alla fine dell’udienza generale, a Roma, riuscì a salutare il Pontefice. Lui ricambiò la stretta di mano, si informò sulla provenienza, passò oltre e poi tornò sui suoi passi: “Taranto? Allora mi saluti il suo arcivescovo, Filippo”. Le parole ricorrono, tracciano un sentiero. «Quando arrivò qui, nel gennaio 2012, fu colpito dall’entusiasmo della gente – continua don Emanuele –. “Fa più caldo che a Rio”, disse. “Si fa fatica a pensare che ci siano dei problemi”». Ne sarebbero scoppiati non pochi, di lì a breve. «Ma lui – prosegue il sacerdote – non s’è mai discostato dalla linea indicata: “Trasformiamo questa ricchezza ecclesiale, questa passione popolare, in aiuto ai poveri e vicinanza ai bisogni sociali”».

L’Ilva, la tradizione dei riti pasquali, le vertenze sindacali... I banchi di prova non sono mancati. Su alcuni ha giocato d’anticipo. L’inchiesta sul siderurgico era di là da venire, ma lui fu chiaro al momento del precetto pasquale in fabbrica: «Eravamo in casa dell’impiccato, e molti hanno la memoria corta per poter ricordare quel che disse allora l’arcivescovo - rievoca don Emanuele -. “Chi viene a Taranto non può non notare l’Ilva”, spiegò. “Non sia il profitto l’unico obiettivo dell’azione umana. Il mio pensiero va alle vittime del lavoro, ai bimbi in cura al Moscati”». Quando poi esplose lo scandalo e la città si divise tra lavoro e salute, lui – tornato in Brasile per la Giornata mondiale della gioventù – rientrò di corsa a Taranto per organizzare una marcia. «Le sue parole furono chiare e dirette – prosegue il sacerdote –: “Non dobbiamo far scoppiare una guerra tra vittime. Non si possono contrapporre gli ammalati agli operai”. Da lì un’opera instancabile di mediazione. Fino all’incontro di novembre, con ministri e ambientalisti messi intorno allo stesso tavolo. Con il messaggio finale del Papa sul pieno riconoscimento dei diritti di ciascuno al lavoro, alla salute e alla pacifica convivenza».

Dialogo e comprensione. Trasposizione pratica di un programma che diventa slogan. Un po’ stile “Comunione e Liberazione”, di cui è stato a lungo guida in America Latina. «Chi si aspettava clamorose azioni di rottura da parte di monsignor Filippo sarà rimasto deluso – conclude don Emanuele –. Ma questo non vuol dire che non ci sia radicale rinnovamento. Sui contributi dell’Ilva alla Curia è stato chiaro, ad esempio: “Se ci sono stati, ora non ci saranno più: l’Ilva non dimentichi il suo ruolo sociale e aiuti direttamente i poveri”. Certo, non nego che in passato si siano verificate delle grossolanità in grado di offuscare l’immagine della Chiesa. Ma pensare una diocesi al soldo dei Riva è quanto di più falso possa esserci. E lo dico da responsabile del periodico di casa: non siamo mai stati teneri con il siderurgico, ma non per questo abbiamo ricevuto pressioni». E poi le aste per la processione dei Misteri: «L’arcivescovo sa qual è il radicamento della tradizione, ma è anche perentorio nel rivendicare il ruolo evangelico delle processioni, sicché nulla deve poter opacizzare lo spirito religioso dell’evento. I soldi sono importanti per le finalità sociali e caritatevoli cui sono destinati, ma non devono diventare un segno che sostituisce gli altri. L’arcivescovo poteva agire d’imperio; ha preferito la collegialità. Un indicatore di rispetto. E di attenzione».



Don Filippo è questo. Andate a trovarlo. Vi riceverà. Due stanze e una sala da pranzo sono il suo appartamento. Se qualcuno pensa a sfarzi curiali, si sbaglia. E non poco. Legge molto, almeno quattro o cinque quotidiani al giorno, più la rassegna stampa internazionale. Perciò ha una visione globale delle cose. Vuoi l’esperienza, vuoi gli studi. Tuttavia è rimasto il ragazzo semplice che scorrazzava in bici per le stradine di Carbonara. Spesso lo troverete in raccoglimento nella sua cappellina. L’immancabile rosario in mano. Unico svago, manco a dirlo, la bicicletta. Perché quando si è preti, ma preti davvero, anche se ti chiamano vescovo o papa, ti resta poco da fare: o marci o pedali. Chi si ferma è perduto. Ma questa, per fortuna, è una storia che non ci riguarda.





Nona puntata - negli incontri precedenti:

- Paolo Perrone

- Dario Stefàno

- Roberta Vinci

- Massimo Ferrarese

- Elenonora Sergio

- Mario Buffa

- Antonio Conte


- Giuliano Sangiorgi
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