Visti da (molto) vicino/ «Vi racconto
mio padre Mario Buffa»

Visti da (molto) vicino/ «Vi racconto mio padre Mario Buffa»
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 1 Dicembre 2013, 18:57 - Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 18:15
LECCE - Ha fatto la storia. Lo diciamo subito e ci togliamo il pensiero. Un capitolo particolare, e fondamentale, di questa zona d’Italia. Poteva andare male, malissimo. La criminalità tracimava, il sangue scorreva, i negozi saltavano... Occorreva alzare un argine. È andata bene. Non è solo fortuna. È storia, storia di uomini. E di sacrifici. Ora che si approssima il tempo del riposo, forse darà un ripasso anche alla geografia. Sono pochi i monumenti che hanno la fortuna di camminare sulle proprie gambe. Lui lo è. Ammesso che gli risalga la voglia di viaggiare. Nato in Calabria, approdato a Lecce; estate a Gallipoli, buen retiro a Roma (zona Trastevere, effluvi magici se non fosse che lui odia la confusione, il frastuono, er caos capitolìno, anche se d’estate gli tocca sorbirsi quello gallipolino). Un moto perpetuo, insomma. Consumato molto, quasi tutto, all’interno del proprio ufficio: mattina, pomeriggio, sempre lì. Il 13 gennaio compirà 75 anni. Quel giorno riporrà la toga.



Mario Buffa raccontato dal figlio Francesco è un’iperbole. E una sorpresa: il padre non lo sa; lo scoprirà solo leggendo. Un giudice visto da un giudice: si sfiora il cortocircuito logico, un frontale interpretativo. Una generazione che riflette l’altra e l’attualizza, la prosegue. La proietta nel futuro. Il primo è presidente della Corte d’appello di Lecce, Brindisi e Taranto: il più anziano in ruolo in Italia se si esclude Carnevale, il ben noto Corrado Carnevale, processato, assolto e tornato in servizio per recuperare gli anni di sospensione. Altra storia. Il secondo, Francesco, è giudice di Cassazione, sezione Lavoro, dopo esser transitato dal Massimario della Suprema Corte e, per un anno, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Il loro ciuffo ribelle è segno distintivo. Non ci vuole poi molto, del resto, a intuire il vincolo di discendenza diretta.

Confronti? Francesco è appena rientrato da Roma, come ogni fine settimana. Siede al tavolino di un bar nel cuore di Lecce. Un caffé shakerato in attesa della pioggia e della moglie Alessandra (giungeranno proprio in quest’ordine), insegnante di latino e greco come la madre, Teresa. «Io lo so chi è più bravo tra me e lui e ho sempre evitato, opportunamente, il confronto. Un giorno il vecchio presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati Gaetano De Mauro disse a me e suo figlio Antonio, professore universitario ed avvocato cassazionista, una frase che ancora ricordo: “Ne ati mangiare ancora friseddre”. E aveva ragione...».



In attesa che le friselle finalmente finiscano,
il nutrimento è condito da affetto filiale: «Ho sempre adorato il suo stile di scrittura: semplice, perché la sua idea è che le parti e non solo gli avvocati debbano comprendere la decisione, e diretto, evitando di perdersi tra cavilli e disquisizioni. Ma lui ha una dote in più: è un grande organizzatore. Dirigere l’ufficio è altro mestiere rispetto a scrivere belle sentenze».

Osiamo? È decisionista, ma un tantino accentratore... Giusto un po’, ecco. «Io lo direi senza “un po’...”», rincara il figlio. Oggi a tavola faranno i conti. Anche perché Buffa junior cala il sovrappiù: «Per dirla tutta, a volte è pure un po’ brusco, visto che non tutti vogliono lavorare quanto lui. Ma quando ci mette le mani, le cose funzionano. È un capo che lavora e che sprona con l’esempio. Certo, pretende molto. Ma difende a spada tratta i suoi giudici. E chi fa questo mestiere sa quanto è facile restare soli ed esposti...».



Cinquantuno anni in magistratura, un po’ di civile e tantissimo penale. Sua la prima sentenza sulla presenza di un’associazione mafiosa nel Salento. Sua la guida del secondo maxiprocesso alla Scu in Corte d’assise, quello degli omicidi (46 in sei anni, dall’86 al ’92) e degli attentati (al palazzo di giustizia, nel ’91; all’Espresso Lecce-Zurigo, il 5 gennaio ’92): tre anni di dibattimento, quasi trenta ergastoli distribuiti fra gli oltre settanta imputati. Tutto filato via liscio. Perché lui dirige, organizza, giudica, ma al momento giusto gigioneggia. Tra l’ironico e il sarcastico, la battuta che stempera. Fin qui, visto da fuori. Perché “lato figlio” le doti sono anche altre: «Modesto, sincero, per nulla invidioso. Con una spiccata sensibilità verso umili ed emarginati: in un convegno raccontò la compassione provata verso un povero cristo che vide cercare cose molto economiche alla Standa e che aveva dovuto giudicare qualche giorno prima. E poi protettivo verso la famiglia: ha vissuto per anni sotto scorta e ha sempre taciuto o minimizzato le minacce ricevute per non farci stare in pensiero». Manifestazioni d’affetto poche, ma grandi slanci di generosità: «Ne ricordo due. Il primo, un viaggio notturno a Roma per confortare mia sorella Adele, ora cancelliera in Procura a Milano, che si era trasferita da poco nella capitale e aveva paura di notte nella grande metropoli. Il secondo, la rinuncia a un incarico presso il Consiglio superiore della magistratura per restare vicino a mia madre, a Lecce».



Il protocollo prevede la sosta forzata nell’area dei difetti. Francesco ci prova. Riflette ed enumera: «Difetti? Due». Vabbe’, è pur sempre il figlio... «La fiducia eccessiva nel prossimo, con quel suo “tout comprendre, tout pardonner”, e il troppo rigore che a volte riserva ai familiari: se gli mostro una mia sentenza, particolare e impegnativa, per farmi bello, lui subito la critica e la corregge. Ma è per non concedersi alle smancerie: le manifestazioni d’affetto le reputa un po’ sdolcinate». Il lavoro ha imposto a Buffa senior di sacrificare gran parte del tempo destinato ai suoi affetti. Ha compensato con la tolleranza: motorino, orari di rientro... Risvolti molto apprezzati dai ragazzi. «Papà è stato molto attento agli aspetti pratici, meno a quelli psicologici. Molto esigente nel pretendere impegno a scuola, mi ha insegnato ad approfondire le cose in modo analitico, a comprendere le ragioni degli altri, a non essere forte con i deboli e debole con i forti, a privilegiare sempre e comunque la conoscenza alle conoscenze».

Il tempo si annuvola. I ricordi si affastellano. Una vita da stringere in poche immagini, da confezionare e consegnare al racconto: le sciate assieme, a Bormio; i viaggi in roulotte, in giro per l’Europa. «A quel tempo, sul finire degli anni ’70, si viveva in un clima di grande libertà. Poi la roulotte l’abbiamo data ai terremotati dell’Irpinia». E infine le grandi “scoperte” trasmesse per contatto, per induzione, per simpatia: il “Mistero buffo” di Dario Fo, i primi dischi di Giorgio Gaber, il Neorealismo, Truffaut e la nouvelle vague, il computer Vic 20. E ancora: le poesie di Brel, i testi di Calamandrei, i romanzi russi...



«Chiude la sua lunga esperienza in magistratura con amarezza: non è il mondo che immaginava da ragazzo. Lo indigna la corruzione dilagante; lo mortifica la difficoltà ad amministrare la giustizia». Cosa farà, smessa la toga? «Spero non faccia altri lavori. Spero possa regalare ai suoi familiari la cosa più preziosa che ciascuno di noi ha: il tempo. Spero possa dedicarsi all’educazione dei suoi due nipotini, 11 e 10 anni. Lui stravede per loro». E loro per lui. Mario, il più grande, stesso nome: «Il nonno è come uno spartano: non si arrende mai». E Gabriele, il più piccolo: «Semmai è come gli ateniesi: vincono anche con i persiani».
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