Tap, governo al bivio: dallo stop all'opera alla Via bis, ipotesi e costi

Tap, governo al bivio: dallo stop all'opera alla Via bis, ipotesi e costi
di Francesco G. GIOFFREDI
5 Minuti di Lettura
Martedì 19 Giugno 2018, 12:49

Se per il governo gialloverde è una delle tanti mine vaganti, per i cinque stelle pugliesi rischia d'essere un vero e proprio ordigno a orologeria. Il dossier Tap non impone scelte a passo svelto (com'è per Ilva), ma custodisce in pancia contraddizioni laceranti. Almeno per i pentastellati: da anni, e con ritmo ancora più martellante in campagna elettorale, hanno assicurato che con Luigi Di Maio e co. al governo il colpo di spugna sull'opera sarebbe stato a portata di mano. Adesso però quasi all'improvviso i toni si smorzano, la cautela domina su tutto, la necessità di soppesare le carte e bilanciare costi e benefici sono la stella polare. La salentina Barbara Lezzi, ministra del Sud e senatrice M5s alla seconda legislatura, in questi giorni ha spiegato che «personalmente» ritiene «inutile» il gasdotto con approdo nel Salento, «ma c'è un trattato ratificato da cinque anni, dobbiamo prenderne atto. Come promesso, faremo una valutazione attenta e responsabile che arrechi il minor danno possibile ai cittadini». Resta il dubbio: Lezzi era a conoscenza dell'accordo internazionale anche quando teorizzava a pieni polmoni l'exit strategy dall'infrastruttura?

Il quadro internazionale. I vincoli internazionali, la Via del ministero dell'Ambiente, l'autorizzazione unica del dicastero dello Sviluppo economico, la maxi azione risarcitoria incombente in caso d'addio all'opera: sono tanti i paletti. Al punto che nella pesatura di costi e benefici il governo sta vagliando ora ogni ipotesi: non solo lo stop all'opera, ma anche una nuova Via per eventualmente rimettere in discussione soltanto l'approdo.
Con ordine, allora. Innanzitutto, il «trattato» citato da Lezzi - ma che «trattato» non è: il riferimento è all'accordo tra Albania, Grecia e Italia (i Paesi di passaggio del Tap) sottoscritto dai tre governi e poi ratificato dal nostro Parlamento nel 2013. In queste ore il fronte no Tap s'è attrezzato per ricordare - come ha spiegato il sindaco di Melendugno, Marco Potì - che «non è prevista la firma da parte dell'Italia di alcun Host government agreement (Hga). Quindi non ci sarebbero, né ci saranno, richieste di penali o di danni per l'Italia, se l'opera non dovesse più essere realizzata». A supporto Potì allega una risposta del Mise (del luglio 2017) alla senatrice cinque stelle Daniela Donno. Tutto vero, ma solo a metà - come si evince dalla stessa lettera del direttore generale del ministero: gli accordi sul piatto sono due, l'uno ratificato dall'Italia, finalizzato - si legge - al «rafforzamento della cooperazione tra i tre governi» e sottoposto a clausole, norme e responsabilità del diritto internazionale; l'altro accordo, quello in effetti mai sottoscritto dall'Italia, è tra governi ospitanti dell'opera e investitore, è un'intesa citata anche dall'articolo 5 dell'altro accordo e limitata ai Paesi su cui ricade larga parte dell'infrastruttura (Albania e Grecia). Nel primo accordo, sottoscritto dall'Italia, ci sono due articoli (7 e 11, intitolati non interruzione del progetto e responsabilità) che determinano comunque impegni e violazioni. Insomma: sul versante internazionale la partita non è affatto indolore.

Le autorizzazioni e i costi. E poi? Pur senza penali, il conto per un addio al Tap rischia d'essere economicamente insostenibile per il Paese. L'exit strategy dovrebbe comportare, per prima cosa, l'annullamento in autotutela dell'autorizzazione unica del maggio 2015. E però non è sufficiente la semplice - seppur in netta discontinuità - volontà politica per cestinare il principale titolo autorizzativo: l'annullamento in autotutela dev'essere motivato da sopraggiunti e nuovi elementi progettuali o di incompatibilità normativa, in sostanza dev'essere cambiato qualcosa nell'opera o nel contesto in senso lato. Il Mise potrebbe comunque annullare l'autorizzazione unica, ma s'esporrebbe al ricorso del Consorzio Tap oltre che ad una salata azione risarcitoria, proporzionata all'investimento. Danno emergente e lucro cessante, insomma: la perdita subita e il mancato guadagno, che Tap rivendicherebbe dopo aver incassato l'autorizzazione, firmato i contratti e avviato i lavori. È un effetto domino: venendo meno l'opera, Tap dovrebbe comunque risarcire a sua volta le aziende appaltatrici e gli importatori-acquirenti (cioè chi ha già firmato i contratti d'acquisto del gas: otto società in tutta Europa, tra cui gli italiani Enel, Edison, Hera). Il tutto senza trascurare il ruolo di Snam (dunque Cassa depositi e prestiti, cioè lo Stato) nella partita Tap.

Un nuovo approdo. Al momento defilata, ma ipotizzata per esempio da sempre da Michele Emiliano, è la soluzione mediana: spostare l'approdo da San Foca al Brindisino.

Da ambienti cinque stelle comincia a trapelare una linea d'indirizzo: nella valutazione di costi e benefici non è certo scartata a priori questa ipotesi, fino a poche settimane fa nemmeno lontanamente accostabile ai pentastellati. La soluzione proposta da Emiliano, che potrebbe anche formularla ufficiosamente al governo gialloverde, è la seguente: un decreto d'urgenza - con l'obbligo di tutti gli enti coinvolti di pronunciarsi entro 90 giorni - per spostare l'approdo in un sito a ridosso del polo industriale brindisino. Detto che la procedura Via ha comunque modalità e tempi difficilmente aggirabili, il cambio d'approdo non sgombrerebbe il campo dal rischio di azioni risarcitorie: Tap deve aprire il rubinetto del gas nel 2020, altrimenti il progetto finirà in soffitta. E un temporaneo reset progettuale rischia di portare il tutto troppo a ridosso della data-cardine.

© RIPRODUZIONE RISERVATA