«Scambiato per un narcos e incarcerato. Vita distrutta, ora mi danno 45mila euro»

Romeo Casola, imprenditore italo-svizzero, è stato arrestato nel 2000 con l’accusa di traffico di droga dal Venezuela. Il processo ha stabilito la sua innocenza, adesso la beffa del risarcimento

«Scambiato per un narcos e incarcerato. Vita distrutta, ora mi danno 45mila euro»
di Luigi LUPO
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Mercoledì 15 Novembre 2023, 21:01 - Ultimo aggiornamento: 18 Novembre, 20:45

«Sono diventato così ricco che non so neppure più cosa fare, dove mettere i soldi ricevuti. Roba da matti». Risponde con sarcasmo, ha la voce vispa ma segnata da un velo di malinconia, quella che non può che avvolgere chi, come Romeo Casola, imprenditore metà svizzero, metà italiano, ha vissuto l’inferno del carcere ingiustamente. Otto mesi nel penitenziario di Lecce per un’accusa che non aveva nulla di fondato. Dopo essere stato assolto nel 2019 dal Tribunale di Bari, “perché il fatto non sussiste”, solo qualche giorno fa la Corte d’Appello del capoluogo pugliese gli ha riconosciuto un risarcimento per ingiusta detenzione.

Il risarcimento

Circa 45mila euro, 235 euro per ciascuno di quei 193 giorni trascorsi in cella.

Soldi che ripagheranno solo in parte un’esistenza distrutta a partire dal 18 giugno 2000 quando l’imprenditore, ora 77 anni, venne ammanettato, portato da Milano, dove aveva una delle sue aziende, poi a Roma. E, infine, in prigione, a Lecce. «Una completa umiliazione – racconta al Quotidiano di Puglia - gli addetti della struttura non volevano neanche leggermi il menù dei pasti. Ho avuto un infarto mentre ero detenuto. Non hanno neanche avvisato i miei parenti. Mi hanno operato a cuore aperto. Ripeto: un’umiliazione per me, per la mia compagna, la mia famiglia. Ho avuto successivamente un altro infarto. Il buon Dio mi ha dato sempre un giorno in più da vivere. E di questo sono felice. Sapevo che la legge, prima o poi, si sarebbe fatta viva. Ero sicuro che finalmente qualcuno di onesto si sarebbe preso cura della mia causa».

L'accusa

Secondo l’accusa, Casola, che in Venezuela aveva fiutato un affare investendo in una cava di granito, lunga 120km, avrebbe partecipato al trasporto di un carico di cocaina dal paese sudamericano all’Italia. Passando per la Puglia. La nave, chiamata Suerte, era di proprietà di un messicano, amico di una conoscenza di Romeo che lo ave chilometri contattato per portare un carico di granito: l’Antimafia pugliese credette che l’imbarcazione fosse carica anche di droga. E che l’imprenditore avesse il ruolo di complice dei narcos. Accuse sempre respinte da Casola che, per anni, ha continuato a professarsi innocente. Anche un collaboratore di giustizia sudamericano, a processo, ha escluso il coinvolgimento di Casola. «All’inizio dell’inchiesta pensavo fosse uno scherzo, una cattiveria, forse della concorrenza. Siamo stati annunciati come una delle grosse cave mondiali: stavamo per andare in Borsa. Pensavamo a uno scherzo per tirarci fuori dai mercati finanziari. Invece, poi, sono arrivate le manette. Sono stato arrestato a Milano, poi condotto a Roma. Lì l’auto delle forze dell’ordine ha avuto un guasto e mi hanno portato a Lecce. Mi sono affidato a un avvocato locale, poi scomparso».

Assistito dagli avvocati baresi Filippo Castellaneta e Rosanna De Canio, l’imprenditore, che vantava, al suo fianco, investitori dall’Arabia Saudita, dal gruppo ThyssenKrupp e da Siemens, ha ricevuto dalla Corte d’Appello il risarcimento per l’ingiusta detenzione. Che lui, però, considera «ridicolo». Casola non nasconde l’amarezza: «Sono ancora in piedi, posso fare camminate, ma non footing. Il cervello ancora funziona. Vado avanti. Non mi fermo qui: quella cifra è ridicola. Altro che risarcimento equo. È tutto vergognoso». Una storia di malagiustizia che, secondo l’avvocato Castellaneta, fa emergere alcune storture dei procedimenti: «Le intercettazioni telefoniche vanno utilizzate per bene e non possono fondare un giudizio di colpevolezza. Solo il dibattimento può accertare la responsabilità di un imputato».

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