Lecce, Renda come Regeni: riparte il processo per omicidio e torture

Simone Renda
Simone Renda
di Roberta GRASSI
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Sabato 11 Novembre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 12 Novembre, 19:13

Nove anni per ottenere un verdetto, altri sette per vederlo eseguito. E forse non lo sarebbe stato mai, se nel frattempo l’Italia non avesse dovuto fare i conti con il dolore per la morte di Giulio Regeni e affrontare di petto, con l’intervento della Corte Costituzionale, la questione dei processi che riguardano fatti accaduti all’estero, con imputati stranieri che risultano assenti. 

La storia di Simone Renda

La storia di Simone Renda, il bancario leccese 34enne trovato senza vita in un carcere di Playa del Carmen, in Messico, sarebbe finita in archivio se il presidente della Corte d’Assise che nel 2016 emise sei condanne per omicidio e tortura, Roberto Tanisi, non avesse deciso di far valere il principio adottato per il caso Regeni anche per la storia salentina che rischiava di restare impolverata in un cassetto. Sospesa tra il primo e il secondo grado di giudizio.  Tanisi nel suo provvedimento ha elencato le note inviate in Messico dal 2017 in poi per la notifica agli imputati della sentenza e rimaste inevase. Passaggio indispensabile per poter celebrare il grado d’appello (considerati i ricorsi dei difensori). 
«Lo stato messicano - ha rilevato il presidente - non ha prestato la dovuta collaborazione, neppure rispondendo, per quanto risulta, alle sollecitazioni del nostro ministero della Giustizia».

Per effetto di ciò, rileva ancora Tanisi, «si è determinata una intollerabile stasi processuale, in tutta analoga alla vicenda del processo Regeni, in riferimento alla quale è stata recentemente emessa dalla Corte Costituzionale una sentenza con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 420 bis», nella parte in cui non prevede che il giudice possa procedere in assenza degli imputati per i delitti commessi mediante gli atti di tortura, quando a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza degli stessi, è impossibile avere la prova della sua conoscenza dell’esistenza del processo. 

Tanisi: «Intollerabile stasi processuale»

«La situazione determinatasi - scrive ancora Tanisi- a seguito delle inottemperanze dello Stato del Messico, è in tutto e per tutto rapportabile a quella esaminata dalla Corte Costituzionale», e quindi ha disposto che la cancelleria della Corte d’Assise consideri come notificata agli imputati la sentenza emessa nei loro confronti e rimetta il fascicolo al giudice di secondo grado. 
Si va avanti, insomma. Nella lunga vicenda giudiziaria che si definì nel 2016 con un conto complessivo di 138 anni di carcere per sei persone: 25 anni ciascuno per i vertici del carcere e per un magistrato, 21 anni per due agenti carcerari, per il responsabile dell’ufficio ricezione del carcere. 
Simone fu ucciso, così è stato stabilito dai giudici togati (oltre a Tanisi, a latere Maria Franceca Mariano) e popolari. Il primo marzo del 2007 era stato arrestato mentre si trovava in un hotel. Poi rinchiuso in una cella in isolamento, abbandonato nonostante condizioni di salute precarie. Tutto per una violazione amministrativa. 


A battersi per ottenere verità e giustizia è stata sin dal principio la madre del ragazzo, Cecilia Greco: «Mio figlio è stato ucciso come Giulio Regeni», aveva detto poco prima che venisse emessa la sentenza. Il caso del ricercatore morto in Egitto risaliva ai primi mesi del 2016, stesso anno della sentenza emessa per il suo ragazzo. Subito dopo il verdetto aveva rivolto il pensiero «a quelle madri che si trovano nelle mie stesse condizioni, che hanno visto i propri figli uccisi da persone in divisa e che affrontano, come è accaduto a me, traversie e porte chiuse in faccia». 
Il giudizio, insomma, può andare avanti. E ciò è importante, a prescindere dal verdetto, per giungere a una verità processuale certa. Fino a un verdetto che sia definitivo, che accerti responsabilità e scriva - in un’aula di giustizia - una pagina di storia non più modificabile. Oltre a garantire, in caso di conferma della condanna, un risarcimento del danno alle parti civili, magra consolazione per un vuoto che in ogni caso nessun ristoro economico potrà mai colmare. 

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