«Due anni di indagini per risolvere un caso da film»: parla il capo della Squadra Mobile, Albini

«Due anni di indagini per risolvere un caso da film»: parla il capo della Squadra Mobile, Albini
di Valeria BLANCO
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Mercoledì 17 Febbraio 2021, 07:22

Occhi delle telecamere oscurati con lo spray, cavi dell'allarme recisi, porta blindata aperta senza segni di effrazione e, infine, uno dei ladri nascosto nell'armadio per giorni fino all'arrivo dei complici: un colpo all'Arsenio Lupin, quello messo a segno due anni fa nella filiale Bnl di piazza Sant'Oronzo. Un puzzle complicato da ricostruire per gli investigatori che, però, a distanza di due anni, hanno stretto il cerchio attorno alla banda che, scassinando 61 cassette di sicurezza, ha portato a casa un bottino da un milione di euro. È giustamente orgoglioso del lavoro dei suoi uomini il dirigente della Squadra Mobile, il vicequestore Alessandro Albini, che all'epoca del maxifurto era arrivato a Lecce da pochi mesi.
Vicequestore Albini, per la città di Lecce quello alla Bnl è stato il colpo del secolo. Come siete arrivati a individuare i ladri?
«È stata un'indagine complessa, durata due anni. Il colpo era stato studiato nei minimi particolari, ben pianificato, messo in piedi da professionisti. Casi come questi si vedono più nei film che nella realtà. Per risolverlo, oltre a un pizzico di fortuna, ci è voluta tutta l'abilità di una squadra messa in piedi ad hoc: i ragazzi hanno lavorato bene nell'individuare gli indagati, hanno raccolto tanti tasselli, li hanno messi tutti in fila e, alla fine, hanno trovato il quid che ci ha permesso di legarli insieme e di arrivare all'individuazione dei quattro indagati».
Sembrava un piano perfetto, cos'è andato storto?
«Qualcosa ha iniziato a scricchiolare sin da subito: i tempi di apertura della porta del caveau ci dicono che probabilmente la banda ha avuto un problema tecnico o informatico. Altrimenti, perché aspettare dal venerdì pomeriggio fino alla domenica, quando poi è scattato l'allarme? L'altro errore è stato dettato dalla fretta perché nel fuggire, allarmati dall'arrivo delle guardie giurate, i ladri hanno lasciato diverse tracce biologiche: urina, attrezzi, guanti. Anche se sono stati bravissimi a non lasciare nessuna impronta».
Le indagini hanno potuto contare su intercettazioni telefoniche, immagini delle videocamere di sorveglianza, gps, analisi del Dna: che importanza ha avuto la tecnologia nella soluzione del rebus?
«Abbiamo lavorato anima e corpo, sin dall'inizio convinti che saremmo arrivati a individuare i ladri attraverso le telecamere. Abbiamo tracciato cerchi concentrici, allargando progressivamente l'area di osservazione ed esaminato ore e ore di filmati fino a che non abbiamo individuato tre auto accodate l'una all'altra. È stata quella la svolta che ci ha condotto verso Fiore e Romano. L'abilità dell'investigatore ha fatto il resto: c'è stata anche una parte di indagine vecchio stampo, fatta di appostamenti e pedinamenti, un gran bel lavoro svolto in sinergia con il Servizio centrale operativo e la Scientifica per tracciare i profili genetici».
Quattro arresti. Caso chiuso o ci saranno ulteriori sviluppi?
«Il fatto che le auto accodate comparse nelle immagini fossero tre ci fa supporre che altre persone possano essere coinvolte. Del resto, un colpo del genere difficilmente si fa in quattro. Abbiamo ancora qualche elemento da sviluppare».
Resta anche il giallo delle chiavi: un doppione mai trovato e le porte aperte senza essere forzate.
«È un punto che rimane oscuro, questo, ma l'agenzia non è di nuova apertura, le porte sono datate e probabilmente le chiavi sono passate negli anni di mano in mano anche nel corso di lavori e restauri. Sicuramente i ladri hanno aperto con le chiavi, ma non sarebbe stato troppo difficile procurarsi delle copie».

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