Il viaggio di Vespa tra le rovine del Duce, il nuovo libro del giornalista

"Perché Mussolini ha rovinato l'Italia" ripercorre gli anni dal Ventennio ai giorni nostri

Il viaggio di Vespa tra le rovine del Duce, il nuovo libro del giornalista
di Bruno VESPA
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Giovedì 4 Novembre 2021, 05:20

Esce oggi il nuovo libro di Bruno Vespa “Perché Mussolini rovinò l’Italia (e come Draghi la sta risanando)” Mondadori / Rai Libri (pagine 468, 20 euro). I primi otto capitoli vanno dalla seduzione di Mussolini per opera di Hitler all’arresto del Duce a Villa Savoia. Gli ultimi sei vanno dai retroscena della caduta di Conte ai primi nove mesi di Draghi.
Pubblichiamo il brano - Rachele: “Non andare dal re. Non tornerai” - sulle ore successive alla drammatica riunione del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio 1943, che portò alla caduta di Mussolini.

Mentre a villa Savoia la Corona e i militari stavano preparando gli ultimi dettagli per fargli la festa, alle 15 Mussolini rientrava a villa Torlonia al termine di una mattinata di governo assolutamente ordinaria.
Dopo qualche ora di sonno agitato, alle 9 di quella domenica 25 luglio si era seduto al suo tavolo di lavoro nella Sala del Mappamondo e aveva ordinato che gli cercassero Grandi (in seguito scriverà che era irreperibile). In realtà, il presidente della Camera era blindato nel suo ufficio di Montecitorio ed era stato scongiurato da Acquarone di negarsi al Duce. Mussolini era convinto di perdere soltanto il comando delle forze armate e di cavarsela con un rimpasto di governo in cui avrebbe proposto al re la nomina di Grandi a ministro degli Esteri. Aveva sentito al telefono Scorza, che gli aveva recapitato una lettera in cui Tullio Cianetti, da poco ministro delle Corporazioni, revocava la sua firma all’ordine del giorno Grandi. («È questa lettera» annoterà Mussolini «che salvò più tardi la vita al suo autore»). Intanto Galbiati, capo della Milizia, era tornato sulla sua idea di arrestare i 19 firmatari della mozione Grandi prima dell’udienza reale del pomeriggio. E il Duce con ironico realismo: «Arrestarli? Ci sono quattro Collari dell’Annunziata (De Bono, Grandi, Ciano e Federzoni), il presidente dell’Accademia d’Italia, ministri, ambasciatori...».
Alle 13 aveva ricevuto molto di malavoglia l’ambasciatore nipponico Shinrokuro Hidaka, quanto mai preoccupato per le sconfitte dell’Asse in Italia. Gli aveva detto che se Berlino non avesse dotato subito l’Italia delle armi richieste, l’Italia non avrebbe potuto continuare la guerra. Secondo il sottosegretario Bastianini, che l’accompagnava, Hidaka era impallidito.
Mussolini aveva letto un appunto di Ciano sulle condizioni poste dagli angloamericani per dichiarare Roma «città aperta» – cioè immune da bombardamenti – e si era sentito ripetere dal costituzionalista Biggini che il Gran Consiglio non aveva competenza alcuna in campo militare. («E infatti col mio ordine del giorno» ribatté in seguito Grandi «la discussione era diventata politica.») Accompagnando Mussolini sulla via di casa, Galbiati gli aveva suggerito di fare una deviazione a San Lorenzo. 
Nelle loro memorie, sia il Duce sia il capo della Milizia parlano di assenza di contestazioni («Non si ebbero imprecazioni, piuttosto richieste di aiuto» annota il console generale nel suo «Fascicolo R»). Come abbiamo detto, Mussolini arrivò a casa alle 15. Mangiò pochissimo. Si stese su un divano, mentre Rachele non gli dava pace: «Non andare dal Re, non fidarti. Il Re è il Re e se gli converrà ti getterà a mare...», per poi concludere profeticamente: «Non tornerai». E lui: «Il Re è il mio migliore amico, forse il solo che ho in questo momento. Tre giorni fa mi ha detto: “Se anche tutti vi attaccassero, io vi difenderei”».
Un’altra donna era in pena in quelle ore. Claretta Petacci aveva cercato invano di farsi ricevere a fine mattina a palazzo Venezia. Poi vi era stata ammessa dal buon Navarra nel pomeriggio, in assenza di Mussolini. Prese un te nell’appartamento Cybo, luogo di spensierati convegni, nella vana attesa del ritorno dell’amante.
Alle 16.55 la Fiat 2800 presidenziale di Mussolini varcò il cancello di villa Savoia. Il Duce era accompagnato dal prefetto Nicola De Cesare, suo segretario personale da due anni, e dal colonnello Tito Livio Torella di Romagnano. La scorta armata aspetto, come al solito, fuori. Appena il Duce si avviò al primo piano dove lo attendeva Vittorio Emanuele (Mussolini dirà invece che il re l’aspettava all’ingresso della villa), il suo autista Ercole Boratto (un pilota professionista al suo servizio ininterrottamente dalla marcia su Roma) fu avviato in portineria con il pretesto di una telefonata urgente. (Chiuso a chiave in una stanza, ebbe panini, bevande e un mazzo di carte, e fu liberato soltanto a mezzanotte.)
E il capitano disse: «Eccellenza, deve venire con me».
Vittorio Emanuele III indossava la divisa di primo maresciallo dell’impero, carica cucitagli addosso da Mussolini. Il Duce aveva un abito blu e il cappello floscio. L’udienza durò soltanto venti minuti. Abbiamo la versione di Mussolini e quella di Puntoni, aiutante di campo del re, che origliava da dietro un tendaggio sentendo soltanto alcuni brani della conversazione. Il Duce aveva con sé una cartella con l’ordine del giorno Grandi, una copia del codice civile e la lettera di rinuncia di Cianetti. Disse al re che il Gran Consiglio era soltanto un organo consultivo, accennò a un rimpasto e propose di deferire al tribunale militare i firmatari del documento Grandi. Ma, questo, Mussolini non lo racconta.
Afferma, invece, di aver trovato Vittorio Emanuele in uno stato di «anormale agitazione» e ne riporta la replica che mixeremo con la versione di Bianchi. «Caro Duce, le cose non vanno più. L’Italia è in “tocchi”. L’Esercito è moralmente a terra. I soldati non vogliono più battersi. Gli alpini cantano una canzone nella quale dicono che non vogliono più fare la guerra per conto di Mussolini (nelle sue memorie, Mussolini dice che il re ripeté in dialetto i versi della canzone). Il voto del Gran Consiglio è tremendo.
Diciannove voti per l’ordine del giorno Grandi: fra di essi quattro Collari dell’Annunziata. In questo momento voi siete l’uomo più odiato d’Italia. Non potete contare più su di un solo amico. Uno solo vi è rimasto, io. Per questo dico che non dovete temere per la vostra incolumità personale: io vi stimo molto e ve l’ho provato qui più di una volta, difendendovi contro ogni attacco. Ma stavolta debbo pregarvi di lasciare il vostro posto e di lasciarmi libero di affidare a un altro la direzione del governo. (Da questo momento è Puntoni che riferisce.) Io devo intervenire per salvare il Paese da un massacro inutile e per tentare di ottenere dal nemico un trattamento meno inumano. L’avvenire della Nazione è affidato alla Corona. Le mie decisioni sono gia state prese. Il Maresciallo Badoglio è il nuovo capo del governo.»
«Voi prendete una decisione di gravita estrema» replicò Mussolini. E spiego che, pur rendendosi conto della propria impopolarità, l’allontanamento dell’uomo che ha dichiarato guerra avrebbe potuto illudere gli italiani su una pace vicina e influire sul morale dell’esercito. Il re tacque.
Secondo altre versioni, il Duce ebbe un crollò e sospiro: «Allora tutto è finito».
«E adesso che debbo fare?» chiese a Vittorio Emanuele, che lo stava accompagnando alla porta. «Rispondo personalmente della vostra sicurezza» gli garantì il re, aggiungendo a bassa voce: «Mi dispiace, mi dispiace».
«Era livido e sembrava ancora più piccolo, quasi rattrappito» racconta Mussolini in Storia di un anno, in cui, come abbiamo detto, parla in terza persona. «Mussolini scese la breve scalinata e avanzo verso la sua automobile.

A un tratto un capitano dei carabinieri (Vigneri) lo fermò e disse: “Eccellenza, Sua Maestà mi incarica di proteggere la vostra persona”.» Il Duce replicò: «Andiamo, non c’è bisogno» e fece per dirigersi verso la propria automobile, ma Vigneri con cortese fermezza lo blocco: «Ho un ordine da far rispettare. Bisogna salire qui». Lo sorresse per il gomito e lo fece salire sull’ambulanza, dove presero posto anche il segretario De Cesare, il capitano Aversa, i tre carabinieri atletici e i tre (Mussolini dice due) agenti in borghese, che si misero accanto alla portiera posteriore armati di fucili mitragliatori. L’ambulanza partì a tutta velocità, lasciando i segni delle ruote sulla ghiaia di villa Savoia. Erano le 17.25 del 25 luglio 1943. Finiva la dittatura di Benito Mussolini, si apriva un’altra pagina tragica di storia italiana.

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