Autonomia, il costituzionalista Luciani: «Frutto di una riforma sciatta, sul tavolo ancora troppi dubbi»

Autonomia, il costituzionalista Luciani: «Frutto di una riforma sciatta, sul tavolo ancora troppi dubbi»
di Paola ANCORA
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Domenica 21 Gennaio 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 15:25

«Stiamo attraversando un momento che non ha precedenti nella storia dell'umanità. Siamo chiamati ad affrontare sfide che nessuna generazione prima di noi ha affrontato: dall'intelligenza artificiale ai cambiamenti climatici e trovo molto ingenuo pensare di poter risolvere problemi simili con soluzioni istituzionali non meditate e certamente inadeguate». Inquadratura ampia, messa a fuoco esatta: la fotografia dei problemi con i quali il Paese è chiamato a misurarsi e dell'architettura istituzionale che l'attuale Governo vorrebbe realizzare, per il professore Massimo Luciani è un bianco e nero di Fan Ho, il grande maestro delle ombre. Tante sono quelle sulle quali il costituzionalista, emerito di Istituzioni di diritto pubblico alla Sapienza e componente dell'Accademia dei Lincei invita a far luce, aprendo una riflessione che, fino a oggi, è mancata.

Professore, lei è stato componente del Comitato per l'individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni presieduto da Sabino Cassese. Che cosa pensa dell'autonomia differenziata così come delineata dal ddl Calderoli?
«Il terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione è norma costituzionale e di una norma costituzionale si deve prendere atto. Questo non esime, però, da qualche riflessione critica. Ho sempre pensato che la riforma che il centrosinistra varò nel 2001 non fosse felice, ma piena di imperfezioni, dettata com'era da esigenze puramente tattiche: si tentava di recuperare qualche voto soddisfacendo una spinta autonomistica all'epoca molto forte. La scelta di aprire all'autonomia differenziata fu fatta senza riflettere con attenzione sulla enorme complessità di una simile ristrutturazione del nostro tipo di Stato. Ora, nella relazione di accompagnamento al ddl 615, il cosiddetto ddl Calderoli, si legge dell'auspicio che con la differenziazione tutte le regioni “aumentino la velocità”, poiché il beneficio ottenuto ridonderebbe in vantaggio di tutte le altre.

Ma non esiste alcuna dimostrazione puntuale, articolata e distesa del perché la condizione di tutte le regioni dovrebbe migliorare una volta che si riconoscesse un surplus d'autonomia ad alcune di esse. C'è, anzi, da dubitarne seriamente. Quando il centrosinistra modificò la Costituzione introducendo la differenziazione avrebbe dovuto porsi questo interrogativo e oggi dovrebbe porselo il centrodestra, mentre si ha l'impressione che tutto questo non sia stato considerato».

Da cosa è sorretta questa impressione?
«Non c'è nulla, in merito a questo aspetto, nella relazione di accompagnamento al ddl Calderoli. Anzi, ci sono studi che sollevano molti dubbi sul miglioramento complessivo del Paese, che è quello che conta: non dobbiamo dimenticare che, quando si ragiona in prospettiva costituzionale, l'interesse è quello del Paese. Non ci interessa che la Puglia o la Lombardia migliorino. Ci interessa che lo facciano tutte le regioni, perché la Repubblica è una e indivisibile».

All'articolo 116 la Costituzione prevede, peraltro, che si possano conferire solo alcune competenze nell'ambito delle funzioni oggi attribuite allo Stato. Fra gli esperti di diritto, più d'uno ritiene che il Governo abbia qui operato una forzatura prevedendo il trasferimento di intere funzioni e non solo di parte di esse. Condivide questa analisi?
«Quando l'articolo 116 parla di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” dice che si deve trattare di condizioni concernenti le materie elencate al 117 (tutte quelle di competenza concorrente fra Stato e Regioni e alcune di quelle di competenza esclusiva dello Stato). Non è chiaro cosa voglia dire, ma era necessario chiederselo prima, quando si varò la riforma del 2001. Ed esiste anche un altro problema».

Quale?
«Fra le materie che possono essere toccate dall'autonomia c'è quella relativa alle “norme generali sull'istruzione”. Questo è un errore “genetico” molto grave dell'articolo 116: come si fa a pensare che le norme generali sull'istruzione possano essere regionalizzate? Se sono generali, devono restare generali. Questo dà la misura della sciatteria della riforma del 2001 e non può che lasciare perplessi l'attuazione, oggi, di una riforma sciatta di 23 anni fa. È mancata una discussione vera, questo è il punto».

E ritiene troppo tardi aprirla ora? Del resto, sul regionalismo i partiti – pur al netto di piccole differenze di vedute – sono tutti d'accordo.
«Vede, i grandi modelli di regionalismo sono sostanzialmente tre. Il regionalismo garantista, fondato cioè sul principio che i compiti di Stato e Regioni sono divisi e che il confine è presidiato in modo rigoroso. Poi c'è il regionalismo competitivo, nel quale le singole componenti dell'organizzazione territoriale competono fra loro per attirare risorse, finanziamenti e via dicendo. Infine c'è il regionalismo cooperativo, nel quale centro e periferia collaborano nell'interesse generale e per raggiungere obiettivi comuni. Il regionalismo italiano, inizialmente concepito in modo incerto, si è evoluto rapidamente nella direzione del regionalismo cooperativo. La differenziazione che si vorrebbe realizzare oggi è pienamente compatibile con questo regionalismo cooperativo? Non è una domanda retorica, ma un punto sul quale è mancata la riflessione. E rispetto a un passo di tale straordinaria portata politico-istituzionale non c'è una risposta, non ci sono dati, non ci sono simulazioni affidabili in nessuna delle proposte legislative che sono state avanzate».

Sta dicendo che nemmeno il lavoro svolto sui Livelli essenziali delle prestazioni contribuisce a rispondere a questo quesito?
«Determinare i Lep è molto utile, perché essi rappresentano un impegno che la Repubblica assume nei confronti dei cittadini per il soddisfacimento dei loro diritti. Farlo è complicatissimo, ma che si sia a favore o contro l'autonomia o il ddl Calderoli, resta un lavoro utile e necessario. Ho fatto parte del Comitato perché sono convinto di questa premessa. Detto questo, la determinazione dei Lep ha tre possibili strade da seguire: una è la registrazione, da parte dei tecnici, dei Lep esistenti; la seconda strada è l'individuazione di Lep ulteriori, che i tecnici possono suggerire, ma la politica deve stabilire. La terza e ultima strada è la definizione dei Lep sulla base delle risorse disponibili, che però non conosciamo. Ma se i Lep sono un impegno della Repubblica nei confronti dei cittadini, allora il procedimento dovrebbe essere inverso e semmai ci si dovrebbe impegnare per onorare quell'impegno e trovare le risorse necessarie. Il tema centrale, a veder bene, è l'equità fiscale».

Un tema enorme in un Paese con uno dei livelli di evasione fiscale più elevati al mondo. Non trova?
«Esattamente, ma senza questa equità fiscale il meccanismo della differenziazione non funziona. Questo nodo evoca problemi enormi da affrontare: uno è, appunto, la lotta all'evasione, che nessun governo si è davvero impegnato a combattere. Il secondo riguarda la definitiva uniformazione dei meccanismi fiscali degli Stati europei, perché se la contraddizione dell'avere una moneta unica e debiti plurimi è evidente, l'avere una moneta unica e sistemi fiscali diversi è insopportabile. Su questo non registro alcun dibattito politico».

Professore, l'assenza dal dibattito di alcuni grandi temi che lei ha indicato è legata forse anche alla crisi che i sistemi democratici occidentali stanno attraversando. L'astensione dal voto ne è un sintomo evidente. Che ne pensa?
«Penso che stiamo suonando una allegra musica da ballo sulla tolda del Titanic. La politica è certamente in crisi in tutti i Paesi democratici, ma la ragione di fondo è l'estrema fragilità, per non dire la dissoluzione, della società civile causata da un concorso di ragioni: le nuove tecnologie, l’impatto dei social, la trasformazione del lavoro e dei modi di produzione, l'indebolimento degli apparati ideologici. Di fronte a tutto questo, la politica dovrebbe ricostruire un tessuto sociale lacerato, ma invece ho l'impressione che si cerchi di trovare scorciatoie. Pensi all'ipotesi del cosiddetto premierato, che prova ad alimentare la legittimazione politica con l'elezione diretta del capo del Governo ma affonda le proprie radici in una società fortemente indebolita e incapace di soddisfare questa aspettativa».

Non le piace la proposta di legge sul premierato confezionata dalla ministra Casellati?
«Fra tutte le ipotesi di elezione diretta del vertice dell'Esecutivo - nessuna delle quali mi convince - questa è senz'altro la peggiore. Meno peggio il presidenzialismo, sebbene nutra molti dubbi sul fatto che un sistema politico come quello italiano possa sopportare una simile forma di governo. Il parlamentarismo, che può essere reso più funzionale in tantissimi modi, resta a mio avviso il più adatto alla nostra realtà».

Professore, se l'autonomia differenziata andasse in porto così com'è, quali strumenti ritiene possa avere il Sud per non affondare? Chiedere a sua volta l'autonomia?
«Il Sud è una spina nel cuore: terra di grandi bellezze e di grandi risorse intellettuali e culturali. Vederlo in sofferenza fa male, ma ciò non accade solo per responsabilità altrui. I cittadini del Mezzogiorno devono esserne consapevoli e diventare protagonisti di un cambiamento necessario, reclamando maggiore efficienza e rigore dallo Stato e poteri pubblici all'altezza del loro compito».

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