Autonomia differenziata/ Le incognite e le insidie di un'Italia “spacchettata"

Roberto Calderoli, ministro per le Autonomie
Roberto Calderoli, ministro per le Autonomie
di ​Rosario TORNESELLO
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Domenica 21 Gennaio 2024, 10:15 - Ultimo aggiornamento: 19:26

La discussione sugli emendamenti è finita. Si va al voto da martedì prossimo, 23 gennaio. Appuntamento ancora una volta in Senato. Giornata importante per l'autonomia differenziata, da tenere a mente per il futuro. Per l'Italia un passaggio decisivo. E ricco di incognite, nonostante le previsioni sulle magnifiche sorti e progressive di proponenti e propugnatori, tutti mossi da obiettivi che probabilmente poco hanno in comune con l'interesse (superiore) del paese. Incombono elezioni importanti, ci sono rapporti di forza da riequilibrare in seno agli schieramenti, e nella maggioranza di governo soprattutto. Nulla accade a caso, e il regionalismo differenziato è una leva straordinaria su cui agire in termini di consenso elettorale. L'asserito fine di riallineare i territori, ridurre i divari e avviare la spirale virtuosa della competitività tra diverse aree del paese sembra essere proprio quel che appare: una illusione (per non dire oltre o pensar male).

La questione è nota: 23 materie che potrebbero essere affidate – anche se non in blocco – all'autonomia regolativa e gestionale delle singole Regioni che ne facciano richiesta, dalla salute al lavoro, dalla scuola all'energia, dai trasporti al governo del territorio. Tranne la briscola, le trasferte per la squadra del cuore, la scelta della pizzeria migliore e poco altro, praticamente tutto quello che riguarda la vita delle persone e lo sviluppo delle comunità. Una situazione senza dubbio esplosiva, punto di arrivo di un percorso iniziato nel 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, riforma avventata (la storia consente i giudizi) con cui il centrosinistra di allora pensò di arginare la Lega, inseguendola sul terreno del federalismo. Oltre vent'anni non hanno prodotto altro di meglio rispetto al disegno di legge Calderoli ora in discussione in Parlamento, in parallelo con la definizione dei Lep, i Livelli essenziali delle prestazioni, compito affidato ai lavori del Comitato presieduto da Sabino Cassese.

E qui siamo.

Domande. Sarà la "secessione dei ricchi"? L'autonomia differenziata spaccherà l'Italia? I gap fra Nord e Sud aumenteranno? Molti pareri di autorevoli economisti e giuristi, non tutti necessariamente meridionali, propendono – dati alla mano – per una risposta positiva. Insomma, parrebbe proprio di sì. Per com'è confezionata, per chi (e per cosa) l'ha ispirata e per come è stata discussa in commissione – incluse opposizioni e clamorose defezioni di esponenti di primo piano che dal Comitato Lep si sono defilati, prendendone recisamente le distanze –, questa riforma potrebbe fare il male dell'Italia, perseguendo nella realtà obiettivi diversi dal riequilibrio territoriale, dalla solidarietà nazionale e dall'efficientamento dei servizi attraverso una gestione più adeguata della spesa. Giudizio senza dubbio tranchant. Ma è proprio così?

Vediamo. Due sono i perni intorno ai quali ruota l'intero meccanismo: i Livelli essenziali delle prestazioni (con la definizione dei fabbisogni standard) e la copertura finanziaria. Sono stati definiti, questi Lep? No. Lo saranno solo con provvedimenti emanati dal governo (o dal suo capo: quei Dpcm famosi soprattutto in era Covid), non con una legge del Parlamento. Dovranno (dovrebbero) garantire parità di trattamento tra le regioni nei vari settori di intervento, ferma restando la (auspicata) capacità dei governi locali di erogare prestazioni migliori. Quanti asili nido? Quanti posti letto? Cose così, per intenderci (ma anche qui, attenzione: non viene definito il livello qualitativo della prestazione, per cui da una parte potresti trovare un luminare della scienza e dall'altra una fulgida espressione di bassa macelleria...). Ma soprattutto non è stabilito quanti saranno i Lep per le materie in discussione. Si era partiti da oltre duecento Lep, comunque pochi, ma è lecito temere, considerata la tendenza in atto, una loro drastica riduzione, termine che fa rima con "trappolone": più Lep, maggiori garanzie di uniformità; meno Lep, maggiori spazi di autonomia e quindi di differenziazione tra territori. E poiché la questione va letta in combinato disposto con l'altro perno della catena di trasmissione – vale a dire la copertura finanziaria dell'intera manovra – va da sé che tutte le incognite evolvono in certezza: chi ha risorse procede, chi non ne ha arretra. E chi le ha in quantità maggiore cosa farà? Due dettagli. Primo: l'iter normativo deriva dalle (legittime) istanze di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Qualcuno obietterà: se non ci sono risorse per partire tutto resta com'è (prospettiva molto poco rassicurante). E tuttavia, va aggiunto, arriva pur sempre una legge a statuire e regolamentare l'autonomia regionale, al di là dei fondi necessari. Secondo dettaglio: la commissione chiamata a definire i fabbisogni standard è in mano alla Lega. Non serve aggiungere altro.

Si dirà: responsabilizzare i territori aumenta il controllo democratico sull’impiego delle risorse e induce a dinamismo gestionale. Se avessimo tempo a disposizione (e molta carta) potremmo elencare gli esempi di inefficienza regionale per spiegare in lungo e in largo origini e implicazioni dei divari territoriali, delle carenze infrastrutturali, delle attese ultradecennali, dei soldi persi, delle spese non fatte, dei progetti abortiti, delle idee naufragate, delle tasche dei cittadini depredate. Senza andare troppo indietro nel tempo, e in là nello spazio, basta rileggere la cronaca pugliese degli ultimi periodi: strade mai fatte, nuovi ospedali "svaniti", ritardi per i Giochi del Mediterraneo, lentezza negli appalti per il Pnrr (i dati regionali sono raggelanti). Fuga dei giovani e mobilità sanitaria, a completare. Tutti elementi emblematici e sufficientemente evocativi degli squilibri in atto, non certo per malasorte o avversione degli dei. Prima di dire che il bello dell'autonomia differenziata è che "vince chi ha gambe migliori", bisognerebbe allineare le posizioni dei partecipanti ai nastri di partenza. E questa riforma non lo fa, anche se promette di farlo. Ma soprattutto, occorrerebbe uscire dalla logica della competitività sempre e comunque. Se proprio è una gara, si vince tutti insieme, non l'un contro l'altro armati. E se perde uno, perdono tutti.
 

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