Valutazione della ricerca in Università: l’Anvur poco affidabile

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Martedì 12 Aprile 2016, 20:33
Stefano Cristante, nella sua rubrica di sabato scorso su questo giornale, ha ben riassunto le ragioni della protesta dei docenti del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo. Una protesta contro il blocco degli stipendi che si è tradotta nel rifiuto dell’invio dei “prodotti della ricerca” all’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca (Anvur) e della conseguente valutazione (Vqr). La motivazione è semplice: l’Anvur non viene riconosciuto come interlocutore credibile.
E vi sono buone ragioni per ritenere che stia contribuendo al processo di distruzione dell’Università pubblica di massa e che questo processo vada fermato.
Anvur opera così. Cala dall’alto, senza alcuna possibilità di interlocuzione con le associazioni scientifiche e tantomeno con singoli docenti, un elenco di riviste sulle quali i ricercatori italiani devono pubblicare: devono nel senso che l’assenza di loro pubblicazioni in quelle riviste comporta una decurtazione di finanziamenti per l’Istituzione nella quale lavorano. La si potrebbe definire Scienza di Stato. Anvur non valuta tutto ciò che, oltre la ricerca, fanno i professori universitari: didattica, impegni istituzionali, partecipazione a convegni, per una quantità di ore lavoro che, in molti casi, supera di gran lunga le otto ore giornaliere, compresi i fine settimana. I componenti dell’Anvur, poi, non sono eletti ma nominati dal Ministero, con procedure alquanto opache. Anvur, infine, ha un costo di funzionamento stimabile intorno a decine di milioni di euro annui: non è poco.
La selezione delle riviste è fatta sulla base del cosidetto fattore di impatto (impact factor), un indicatore che cattura la numerosità di lettori di una data rivista. L’impact factor non è mai stato utilizzato, in nessun Paese al mondo, per valutare la qualità della ricerca scientifica: si tratta di un indicatore formulato per orientare le scelte di acquisto di riviste da parte delle biblioteche.
L’Agenzia valuta le pubblicazioni in relazione alla sede che le ha ospitate, indipendentemente dal loro contenuto, così che un articolo che nulla aggiunge alle nostre conoscenze, se, per puro caso, è stato pubblicato su riviste di “eccellenza” (ovvero certificate tali dall’Agenzia) riceve una valutazione molto positiva, così come, per contro, un articolo estremamente innovativo pubblicato su riviste che l’Anvur non considera buone riceve una valutazione bassa. È del tutto evidente che questo dispositivo genera attitudini conformiste, dal momento che per pubblicare su riviste considerate prestigiose (e definite di classe A) occorre uniformarsi alla loro linea editoriale, e talvolta – come spesso documentato – anche mettere in atto comportamenti eticamente discutibili. L’amicizia con il Direttore di una rivista di classe A può facilmente consentire di essere considerati ricercatori di eccellenza.
La storia della Scienza mostra inequivocabilmente che le maggiori “rivoluzioni scientifiche” si sono generate non allineandosi al paradigma dominante. In tal senso, l’operazione Anvur è quanto di più dannoso si possa immaginare per l’avanzamento delle conoscenze in ogni ambito disciplinare e, non a caso, in quasi nessun Paese al mondo esiste una valutazione “dall’alto” della qualità della ricerca. In alcuni casi, quando si è provato a farlo si è rapidamente tornati indietro. Non a caso, all’estero, non si è valutati sulla base di protocolli di riviste generati da agenzie governative: e vi è ampio consenso sul fatto che una rivista è da considerarsi scientifica se rispetta due fondamentali criteri: l’essere dotata di un comitato scientifico, garante della qualità delle pubblicazioni che ospita, e sottoporre gli articoli che riceve a revisione anonima (peer review), al fine di accertarne la piena scientificità.
Vi è di più. L’Anvur ha, a più riprese, riformulato le sue valutazioni; il che costituisce un segnale piuttosto eloquente della natura sperimentale degli esercizi di valutazione che compie, e della sua approssimazione. D’altra parte, l’Agenzia ha scelto curiosamente di non fare riferimento a esperienze consolidate da decenni (come quella britannica), ma di proporre nuove metodologie, con esiti a dir poco confusionari. Può essere sufficiente considerare che gli esiti della Vqr in corso non saranno confrontabili con quella precedente, generando il risultato surreale per il quale non sarà possibile capire se la produttività dei ricercatori italiani, nell’ultimo decennio, è aumentata, diminuita o rimasta costante.
Il tutto rientra in uno scenario di più ampia portata, che attiene al fatto che, come dimostrato con la precedente Vqr, la valutazione della ricerca serve a ridistribuire risorse ad alcuni Atenei, localizzati al Nord, andando nella direzione della distinzione fra Università reserach e teaching (e queste ultime saranno poco più che Licei). In tal senso, i dispositivi Anvur appaiono pienamente funzionali al ritorno a un’Università di classe, con poche sedi autoproclamatesi “di eccellenza”, che formano le future classi dirigenti, e le altre nelle quali si fa formazione di base per studenti provenienti da famiglie il cui reddito non consente loro di iscriversi alle reserach. Insomma, un salto indietro di cinquanta anni o, per dirla con l’ex Ministro Mariastella Gelmini, il definitivo “superamento del ‘68”. A danno del Mezzogiorno e delle famiglie più povere del Mezzogiorno.
 
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