La pericolosa retorica del virus come catarsi

La pericolosa retorica del virus come catarsi
di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 5 Aprile 2020, 09:42 - Ultimo aggiornamento: 17:26
Nel confuso e celere alternarsi di cauto ottimismo e di cupo pessimismo in queste ore, tra fili di luce intravisti in fondo al tunnel subito oscurati dai nuovi sospetti che vengono dalla comunità scientifica sulla molteplicità delle vie di trasmissione del virus, tornano di grande attualità le parole autocritiche scritte qualche settimana fa da Gianrico Carofiglio su Repubblica. “In molti - io per primo - abbiamo detto cose sbagliate, a volte stupide, dall’inizio della crisi. Le affermazioni sbagliate o anche stupide dipendono da molte ragioni... Esiste però un tema generale. Riguarda il nostro bisogno quasi compulsivo di esprimerci su tutto; anche prima di avere elementi per farlo senza rischiare di dire o scrivere sciocchezze... I miei comportamenti più stupidi sono consistiti nell’esprimere un’opinione quando avrei fatto bene a non parlare o a non scrivere. Meglio ancora avrei fatto bene a non avere nessuna opinione, in mancanza di conoscenze sufficienti”.

Chapeau! Per l’onestà intellettuale e la capacità di fare autocritica, dote sempre più rara dell’intellettualità dei nostri tempi. Se avessimo seguito in molti il consiglio di Carofiglio, sarebbe stato sicuramente meglio. C’è stata e continua a esserci molta letteratura, in gran parte cattiva letteratura, in queste settimane sui giornali e in tv, anche da parte delle menti più lucide e attrezzate del Paese. Tante, troppe opinioni sono state espresse prima ancora che si avesse contezza dei fatti e della dimensione della tragedia. Tanti, troppi messaggi sono stati lanciati in direzione sbagliata da parte di commentatori che, pur invocando le competenze e il rispetto dei saperi, hanno dismesso per sé l’arte di imparare e di pensare prima di commentare; e, soprattutto, hanno dimenticato l’arte di tacere, quella che ci ha tramandato un po’ di secoli fa l’abbé Dinouart, saggio e severo assertore del tempo in cui tacere è molto più importante che parlare.

Soprattutto, se il silenzio serve a leggere, imparare, capire. E a ritrovare la giusta lucidità che resta l'arma fondamentale per non rimanere imprigionati nella trappola paralizzante della paura ma, al contrario, per trasformare proprio la paura in una spinta per la salvezza. Ecco, se c'è un motivo per rompere in questo momento il silenzio, non è tanto per aggiungere altra confusione, ma solo per tentare di arginare un montante conformismo di pensiero che, partendo dai buoni propositi e dalle buone intenzioni che la vita da reclusi ci sta facendo scoprire, alimenta visioni e previsioni velleitarie, insegue e coltiva illusioni che possono solo rendere più difficile la ripartenza e la risalita.

Allora, meglio dirlo subito, senza tanti giri di parole: di fronte ai foschi e terribili scenari, non solo sanitari ma anche economici e sociali, in cui siamo piombati, troviamo insopportabile la retorica consolazionista, quell'ormai diffusa corrente che legge nel flagello in corso un salutare avvertimento, almeno per una parte del mondo, dell'insostenibilità degli stili di vita (di prima), dei modelli di sviluppo e di organizzazione delle società (di prima), dell'imbarbarimento dei rapporti umani (di prima), della velocità impressa dalle tecnologie ai processi produttivi e all'esistenza quotidiana (di prima), della crescita infinita e del profitto illimitato (di prima). Quelli, insomma, che...finalmente abbiamo capito dove stavamo andando a sbattere; quelli che...finalmente il cielo sta diventando più pulito; quelli che... finalmente ci stiamo convincendo che la decrescita porterà più serenità e umanità; quelli che...finalmente la natura si sta vendicando; quelli che... finalmente è meglio lasciare la velocità e tornare al fascino della lentezza; quelli che ...il Sud si sta salvando grazie all'arretratezza della sua economia e delle sue infrastrutture. E giù di questo passo. Fino all'altrettanto insopportabile e consolatorio luogo comune, tipico nelle fasi di eventi traumatici, secondo cui nulla sarà più come prima perché usciremo tutti migliori di prima.

La crisi come frattura. L'infezione e l'auspicata guarigione come catarsi delle nostre colpe. Il virus come atto liberatorio, palingenetico e incubatore di una nuova società. La pandemia come castigo dei nostri crimini e dei nostri peccati per aver inseguito e, in parte, realizzato stili di vita insostenibili per il pianeta. Sarebbe bello, anzi fantastico se fosse possibile e realizzabile, grazie a un virus, il salto catartico da un (presunto) prima infernale a un (presunto) dopo paradisiaco. E sarebbe ancora più bello se questa transizione dal male di prima al bene di dopo potesse avvenire senza dolorose lacerazioni nel corpo e nella vita di milioni, anzi di miliardi di persone, senza cioè una selezione attraverso macellerie sociali e macerie umane che non hanno precedenti nella storia dell'umanità.

Così non è. E così non è mai stato. La storia dell'umanità ha finora dimostrato il velleitarismo, oltre che la pericolosità, dell'idea che per costruire una società migliore sia necessario vedere distrutta quella preesistente. Tanto più se ci si illude che debbano essere eventi esterni e traumatici, e non le nostre volontà, a produrre il nuovo.
Ecco perché pensare di cancellare con un tratto di penna da dove veniamo e come siamo venuti per tornare indietro e puntare la rotta sull'Eldorado - ammesso che sia mai esistito l'Eldorado nella storia dell'umanità - è filosofia da salotto, sociologismo da accademia.

Sogni e illusioni perseguibili probabilmente da chi si sente protetto e garantito, lontano dalle sofferenze e dalle disperazioni che in poche settimane la crisi ha già prodotto nella vita di milioni, anzi di miliardi di persone. È frutto delle scorie di quell'immagine negativa costruita negli ultimi anni intorno all'economia reale, sopraffatta dalla finanza e con questa confusa, quasi fosse una disciplina che mina le fondamenta della convivenza civile, violenta i diritti delle persone, contrappone la produzione dei beni alle condizioni di vita e di lavoro di chi li produce. Ed è frutto di quella diffidenza, in molti casi dell'ostilità di parti consistenti ed egemoniche dell'intellettualità e dell'accademia nei confronti della produzione, del commercio, del guadagno, della crescita e della creazione di ricchezza.

Al contrario, è proprio nel recupero civile dell'economia che dobbiamo prestare molta attenzione nei mesi a venire. Il mondo che uscirà da questa tragedia dovrà piuttosto ripartire dalle conquiste raggiunte prima, non dal loro azzeramento, se non vuole essere ancora più ingiusto con i deboli, i sofferenti, gli ultimi e per vedere ulteriormente accresciute le diseguaglianze. Correggendo certo gli errori e gli orrori di questi ultimi trent'anni di pensiero unico, a partire dalla demonizzazione di tutto ciò che è pubblico, dall'allergia alle regole e alle limitazioni degli spiriti animali, dalla prevalenza della finanza sull'economia reale, dalla dimenticanza della giustizia sociale, quasi fosse un ideale arcaico di provenienza novecentesca.

Tutto ciò, vorremmo dire ai consolazionisti, si poteva e si doveva fare anche senza l'arrivo del coronavirus, se ci fossimo indignati e ribellati contro chi ci ha raccontato - a destra come a sinistra - le magnifiche sorti e progressive della globalizzazione senza governo e senza regole. Ma passare oggi all'estremo opposto, pensare di poter e dove tornare indietro per rivivere l'età idilliaca (?) dell'Arcadia, idealizzare un diffuso benessere pauperistico da piccolo mondo antico, inseguire la gioiosa e rilassata società bucolica, dopo la grande paura, significherebbe una condanna alla povertà e alla disperazione per larghissime fasce della popolazione.

Altro che decrescita felice. La sospensione dell'economia sta lacerando e travolgendo vite umane ancora più del virus, e più lunga sarà questa sospensione più macerie ci saranno. La povertà, ormai, non è più raffigurabile nell'immagine dei clochard o di quanti, ed erano già tanti, si mettevano in fila davanti alle mense delle Caritas. No, la povertà e la disperazione stanno diventando qualcosa d'altro, di più grande, di più diffuso, e di più esplosivo. Lo vorremmo ricordare soprattutto a chi ha trovato ulteriore consolazione nel fatto che il virus si presenti come democratico ed egalitario, perché colpirebbe indistintamente élite e popolo, paesi ricchi e paesi poveri, regioni avanzate e regioni arretrate. Una lettura completamente sbagliata. Perché i costi e le conseguenze materiali non saranno certo uguali tra chi detiene grandi ricchezze, o possiede molte rendite, e il piccolo o medio imprenditore, l'artigiano, il cameriere o il barista, l'operaio o il commerciante. Né la fuoriuscita dall'emergenza sarà identica tra il Nord e il Sud, tra un settentrionale e un meridionale. Basti guardare i volti e ascoltare le grida di sofferenza e di aiuti che vengono dalla società in queste ore drammatiche.

Ci stiamo accorgendo che il virus non sta minacciando soltanto le vite umane, sta mettendo in pericolo la stessa tenuta dello Stato democratico moderno, l'organizzazione sociale fondata sul patto di convivenza civile tra i cittadini. Al di là delle bellissime manifestazioni di solidarietà di questi giorni, faremmo bene a non dimenticare mai che di fronte alla fame, alla sete, alla perdita di un tetto, all'impossibilità di soddisfare - ordinatamente - i bisogni primari di ogni uomo, il vero pericolo è quello di ripiombare nell'hobbesiano stato di natura: homo homini lupus. Uno stato dove non c'è legge che tenga, dove non ci sono diritti e doveri reciproci, patti, regole e sanzioni. È questo il pericolo che stiamo correndo. Qualche avvisaglia l'abbiamo avuta negli ultimi giorni, solo attenuata dall'arrivo dei fondi ai Comuni per i buoni spesa. Ma più la crisi sarà lunga, soprattutto nelle aree più povere, più quel pericolo rischia di inverarsi.

Per questo ora è necessario, indispensabile, doveroso che lo Stato svolga in pieno il suo primo compito, quello di garantire innanzitutto i bisogni primari a tutti i suoi cittadini: mangiare, bere, avere un tetto. Offrire, attraverso tutte le forme, liquidità diretta o indiretta a chi già non l'aveva e a chi l'ha perduta in queste settimane. Liquidità per sopravvivere, innanzitutto. Ma anche liquidità e misure choc per sostenere la ripresa produttiva, sia sul lato dell'offerta che su quello della domanda. Indebitandosi, certo. E non poco. Ma anche qui, è bene diffidare dalla nuova idolatria statalista, dopo decenni di furore antistatalista con il quale sono stati costruiti partiti, leadership, cicli politici, e in nome del quale sono stati devastati settori e servizi pubblici essenziali. Chi pensa che tali doverose misure possano essere prolungate nel tempo, se non addirittura strutturali, e che basti stampare illimitatamente moneta per immettere liquidità nel sistema come se la solvibilità dello Stato fosse una variabile indipendente, può fare facile presa sulla rabbia della gente e raccogliere consensi. Ma inganna il prossimo.

I debiti, con o senza l'Europa, dovremo ripagarli, noi e i nostri figli. O, almeno, offrire garanzie concrete di essere in grado di ripagarli. E per farlo servono imprese, lavoro, allargamento delle base produttiva e allargamento della base imponibile. Si torna lì. Serve rimettere in piedi l'economia, la produzione, il commercio, gli scambi. Serve creare ricchezza. E, soprattutto, serve più Europa, combattendo e strappando a Bruxelles, con pazienza e alleanze, interventi comuni per obiettivi comuni. Altro che uscire dall'Europa. Senza il pompaggio della Bce delle ultime settimane e il piano di investimenti annunciato dalla Commissione, oggi staremmo già in un altro scenario.

Perciò, meglio tenersi a debita distanza dalle mielose retoriche di questi giorni, e anche dai profeti del finalmente nulla sarà più come prima, dal consolazionismo e dal pentitismo. È il momento di far prevalere la lucidità, consapevoli che, certo, usciremo diversi, molto diversi, da questa crisi, ma non sappiamo ancora se in meglio o in peggio rispetto a prima. Molto dipenderà da noi, dal capire ciò che avremmo dovuto fare e che non abbiamo fatto, nell'economia come nella politica, nel garantire i diritti e nel pretendere il rispetto dei doveri (primo fra tutti, il pagamento delle tasse), nel trovare la giusta compatibilità tra lo sviluppo e la difesa dell'ambiente. Ma senza illuderci che per salvarci e rimetterci in cammino basterà cancellare ciò che eravamo. Significherebbe scambiare il virus per un messia. Un grande abbaglio.
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