Il vero civismo che serve alla società e alla politica

Elezioni
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di Claudio SCAMARDELLA
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Domenica 24 Marzo 2019, 09:01 - Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 20:35
Civismo è l'ultima delle parole magiche che la politica ha usurpato dal vocabolario per elevarla a (illusoria) formuletta risolutiva della propria crisi di idee, di contenuti, di senso. Dunque, di credibilità. E come tutte le parole magiche che, periodicamente, diventano di moda nel discorso pubblico, anche questa sfugge a una precisa definizione, può contenere tutto e il contrario di tutto, il vero e il falso, il bene e il male.
Eppure civismo è una parola dal significato preciso perché antica, antichissima. Basterebbe avere qualche dimestichezza con l'etimologia per comprendere l'uso inappropriato e fuorviante che se ne sta facendo in questi mesi per far fronte al declino della politica e all'eclissi dei partiti. Viene dal latino civis, cittadino: alto senso dei propri doveri di cittadino, che spinge a trascurare o a sacrificare il proprio benessere per l'utilità comune, è la definizione della Treccani. Significa, cioè, osservare patti e rispettare regole che consentono il vivere insieme con gli altri, avere la coscienza dei propri doveri, dettata dal riconoscimento e dal rispetto dei diritti degli altri, tutelare e aver cura degli spazi e dei beni comuni, di pubblica proprietà e di pubblica utilità, al pari degli spazi e dei beni privati. Derivazione di civis e di civismo è, non a caso, la parola civiltà (dal latino civilitas), l'organizzazione della vita materiale, sociale e anche spirituale di un popolo misurata, in ultima istanza e nelle società moderne, proprio con il livello di osservanza e di rispetto del patto di convivenza civile, di coscienza dei doveri, di cura dei beni comuni.
Difficile, se si parte dalla significanza delle parole, comprendere che cosa c’entri tutto ciò con la formuletta magica del “civismo” tanto in voga oggi nella politica, in particolare nei mesi che precedono le elezioni e nei giorni decisivi della scelta delle candidature. Difficile capire che cosa c’entri il “civismo”, nell’accezione più alta del termine, con la confusa e indistinta proliferazione di liste e candidati civici nel solo tempo delle elezioni, che cosa c’entri l’alto senso dei propri doveri di cittadino con la formazione di alleanze politiche e di governo spurie, che cosa c’entri il civismo con l’insulsa e mai tanto deprecata cultura del trasformismo, del gattopardismo e del (loro parente stretto) qualunquismo. Ecco: giustificare e, persino, esaltare questi comportamenti e questi fenomeni con un uso truffaldino di una parola nobile come “civismo” rappresenta il senso e il vuoto dei nostri tempi, in cui abbiamo smarrito il valore e la pregnanza del linguaggio. E il cerchio si chiude se l’utilizzo improprio della parola “civismo” viene spesso innervata da uno slogan altrettanto vuoto e altrettanto truffaldino, peraltro dalla funesta eredità, che è quello dei profeti dell’“andare oltre”, portatori della più trasformistica delle (in)culture (im)politiche che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni, senza passato e senza futuro, perciò interamente proiettata sul presente, sulla gestione del potere e sulle alleanze qui ed ora, priva di progetto e di visione. Al netto delle spinte genuine e virtuose di chi sceglie di mettersi in gioco, di abbandonare il bordo campo e partecipare direttamente alla vita politica, “civismo” e “andare oltre” sono diventati ormai dei passepartout per transitare da uno schieramento all’altro, da un partito a un altro, da un gruppo a un altro, da una corrente a un’altra, per stare in una coalizione qui e in una coalizione alternativa a dieci chilometri di distanza. Questo falso “civismo” è l’epilogo inevitabile della farlocca contrapposizione tra una “società civile buona” e una “società politica cattiva” al centro, negli ultimi decenni, del racconto mediatico italiano. Un racconto fuorviante. Che tanti guasti ha già provocato con l’ascesa dei cosiddetti “portavoce dei cittadini”, dipendenti da centrali opache. E che tanti ne continuerà a provocare se non riscopriremo presto e bene la fondamentale importanza dei grandi soggetti collettivi, capaci di portare a sintesi interessi e preferenze individuali con visioni, sogni, progetti e aspettative comuni. Il falso “civismo”, insomma, non c’entra nulla con la rigenerazione e la rifondazione della politica, anzi ne è la negazione. Senza dimenticare che non pochi tra i cosiddetti “civici”, fallaci ideologi della sepolta demarcazione tra destra e sinistra, sono il peggio del peggio della vecchia politica, riciclati con un curriculum di trasformismi da far invidia all’insuperabile Fregoli. Meglio diffidare.
Noi, in particolare al Sud, abbiamo bisogno dell’altro “civismo”, quello dei doveri del cittadino e del riconoscimento dei diritti degli altri, quello del rispetto delle regole, quello dell’osservanza del patto di convivenza e, soprattutto, della tutela e della cura dei beni comuni, degli spazi pubblici. Per 365 giorni all’anno, non per il mese prima delle elezioni. Noi meridionali abbiamo bisogno di quel “civismo” che ammiriamo nei popoli del nord e del centro Europa e, spesso, invidiamo agli italiani del settentrione, nelle piccole come nelle grandi città. Lo ammiriamo e lo invidiamo perché a noi difetta. E molto. Nella comunità. Nella società. E, dunque, nella politica. 
Basta guardare le foto che nelle ultime settimane ci hanno inviato i lettori e abbiamo pubblicato su Quotidiano per la campagna “Sporchiamoci le mani”, in collaborazione con Legambiente, che oggi vivrà la prima tappa a Gallipoli. Il Salento è devastato da discariche di rifiuti lungo le strade, nelle campagne, tra le dune, perfino nelle pinete e nei parchi verdi. Cartoline vergognose per chi arriva, certo. Ma vergognose soprattutto per chi è nato, vive e lavora nel Salento. Li abbiamo messi noi, lì. E siamo responsabili noi, ognuno di noi. C’è un punto oltre il quale l’istituzione, l’amministrazione, l’organizzazione comunale, lo Stato non riescono e non possono andare, a meno di una improbabile e, francamente, deprecabile militarizzazione del territorio per metro quadrato. C’è un punto oltre il quale la repressione, le telecamere, le foto-trappola non riescono più ad essere un deterrente. Oltre quel punto, c’è soltanto la nostra coscienza dei doveri e del rispetto dei diritti degli altri. Oltre quel punto, la battaglia si vince soltanto se si abbatte il deficit di civismo, soltanto se ognuno di noi si comporta da cittadino anche lontano dalle telecamere e senza temere controlli, soltanto se è educato ad avere cura dei beni comuni e degli spazi pubblici. Oltre quel punto, la battaglia si vince soltanto se si diventa consapevoli che ogni rifiuto abbandonato lungo le strade, nelle campagne, nelle pinete è un cazzotto al futuro dei propri figli e dei propri eredi che verranno su questa terra. Cose normali e banali altrove, ma rivoluzionarie qui per la scarsissima accumulazione di capitale sociale. 
Sarebbe lungo, anche se mai superfluo, risalire alle cause storiche e politiche di questo grave deficit di noi meridionali, di questa carenza di senso dello Stato e spirito comunitario, di questo contrasto tra i cittadini (o sudditi?) e il bene pubblico. Si può accennare, qui, all’analisi, in verità non interamente condivisibile, del politologo americano Robert Putnam - autore de<CF4002> “La tradizione civica delle regioni italiane</CF> - che spiega la <CF4002>“civicness”</CF> del Nord e lo spirito<CF4002> “uncivic”</CF> del Sud con la divaricazione storica delle due aree nei secoli del Medio Evo: l’età dei comuni medievali avrebbe educato il Nord ad autogovernarsi (repubblicanesimo comunale) e a maturare la consapevolezza dell’importanza del capitale sociale con la conseguente “assuefazione” alla cura degli spazi pubblici, mentre il Sud si adagiava nella delega ai feudatari e alla monarchia normanna per la tutela del bene comune (feudalesimo e autarchia) predisponendosi così all’irresponsabilità pubblica, all’individualismo, alla separatezza, allo spirito anarchico, alla sola cura del “proprio particulare”. Si può, inoltre, ricordare l’analisi di Benedetto Croce nel confronto diretto tra la storia normanna d’Inghilterra e quella del Mezzogiorno, con regni fondati da uomini della stessa genìa, e ordinati allo stesso modo, giunti però ad approdi completamente diversi: lì, il potere regio, grazie anche alla capacità dei baroni di perseguire fini e interessi generali dell’intero popolo, fu piegato e forgiato a uso della nazione; qui, con baroni e nascenti borghesi rimasti estranei ai sovrani, non nacque invece né un popolo né una nazione, né un nome unico in cui le diverse popolazioni si riconoscessero. 
Ci ha sempre convinto, tuttavia, un’altra lettura, più gramsciana. Ciò che è mancato al Mezzogiorno negli ultimi due secoli è l’assenza di un’autentica rivoluzione borghese. È mancata un’egemonia culturale di una classe che altrove ha inverato un disegno complessivo di organizzazione della società, anche con punti di riferimento e modelli comportamentali da emulare. Nel Mezzogiorno la borghesia, nella maggioritaria variante della borghesia delle professioni, è stata (e resta) molto “suddita” e poco “cittadina”, ha perseguito più interessi particolari e, spesso, privatistici che interessi generali e obiettivi comuni. Ha cercato la protezione dei potenti di turno, ha accettato la concessione dei favori invece di pretendere il rispetto dei diritti. E lo ha fatto per tradire spesso i doveri nei confronti della collettività e del bene comune. Il nostro deficit di “civismo” è stato soprattutto il deficit delle classi dirigenti nell’alto senso dei doveri, con gravi ripercussioni sull’intera società. Perciò faremmo bene quanto prima a liberarci del comodo luogo comune secondo cui la trasgressione delle regole e la mancanza di spirito civico riguarda mondi e ambienti lontani dai nostri, come se il difetto di civismo non toccasse da vicino e tutti i giorni anche ognuno di noi, nella nostra vita quotidiana. E faremmo bene, nelle nostre famiglie, nel lavoro, nelle comunità, nel rapporto con lo Stato, nei “salotti buoni” a non elevare come virtù ma a condannare come disvalori la furbizia, l’individualismo, l’allergia alle regole, la prevaricazione verso i diritti degli altri, l’astuzia a raggirare limiti e norme previsti dal patto di convivenza, la slealtà e la ricerca del favore. Certo, non basta indossare i guanti per qualche ora, rimuovere i rifiuti lungo le strade o nelle campagne per raggiungere la “civicness” Ma se stamattina, o nei prossimi appuntamenti di “Sporchiamoci le mani”, ci saranno dieci, cento, mille bambini, al fianco di insegnanti, imprenditori, professionisti, operai e impiegati, forse un piccolo seme per ridurre il nostro deficit di civismo lo avremo lanciato. Un seme che produrrà, sicuramente, risultati più importanti e collettivi del falso “civismo” in politica.
 
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