Salvemini, il preside che portò la sinistra al governo

Salvemini, il preside che portò la sinistra al governo
di Angela NATALE
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Sabato 3 Giugno 2017, 12:00 - Ultimo aggiornamento: 12:01

È stato il caso, è stata fortuna, è stata un’alchimia? Conta il risultato: Stefano Salvemini sindaco. Lecce per la prima volta alza bandiera rossa. Un rosso un po’ “sbiadito” dal verde dell’Ulivo di Prodi, ma dentro tutti i partiti della sinistra. Dal Pds a Rifondazione comunista, dal Patto dei democratici alla Federazione dei verdi, ai socialisti, seppur in ordine sparso.
È il 1995. Archiviata l’egemonia del potere Dc e lo strapotere del Consiglio comunale che con la vecchia legge elettorale faceva e disfaceva, Lecce – miracolo – si sveglia sotto a un altro cielo. Sette maggio 1996. Tenete a mente la data. E’ quella che segna la prima vittoria della sinistra nella città barocca degli intrighi di Palazzo, ma anche l’ultima. Dopo Salvemini, sarà penitenza. Corse a vuote. Inciampi. Sterile caccia ai sopravvissuti ai dieci anni di governi targati Adriana Poli Bortone e altri dieci segnati da Paolo Perrone. Sconfitte.
C’è chi, di quella vecchia coalizione tradita sul più bello, si lecca ancora le ferite. La candidatura di Salvemini - preside in pensione, la politica nel sangue perseguita con i socialisti - era riuscita a far uscire dal sonno profondo dell’autocompiacimento il piccolo mondo dorato degli intellettuali di sinistra, intere fasce di professionisti illuminati, i ceti sociali più disparati, la classe impiegatizia e quella operaia che sì, allora ancora esisteva e resisteva agli attaccati di un’imprenditoria autoreferenziale. La favola durò poco: da giugno ’95 a novembre ’97. E di fiabesco ebbe ben poco, a parte i lupi e i draghi che da subito presero a soffiare sul fuoco alimentando inquietudini e spargendo nell’aula consiliare, ma anche in giunta, i germi della ingovernabilità.
Era il sindaco giusto al posto giusto, il professor Salvemini. Rappresentava la novità, la speranza, l’illusione di poter partecipare, dal basso, al cambiamento. La sua era stata una candidatura su cui aveva messo il sigillo il senatore Giovanni Pellegrino oltre che certificata dall’allora segretario cittadino del Pds, Sergio Ventura. E fu vittoria agevolata dalla spaccatura nel centrodestra sceso in campo con due candidati: Francesco Faggiano, sostenuto da Alleanza nazionale, Centro cristiano democratico (Cdu) e una lista civica; e Giorgio Quarta Colosso, sospinto da Forza Italia e Partito popolare. In corsa, ognuno dei quali con la sua civica, anche Salvatore Bianco, Giuseppe Carratta, Antonio Marciante, Claudio Danisi e Ruggero Vantaggiato.
Nessuno si poneva il problema di Salvemini. E se ne pentirono amaramente. L’Ulivo prese 22.379 voti, pari al 38,07%, Faggiano raccolse 18.510 preferenze, mentre il candidato della destra, con 11,058 voti, si attestò al 18,81 per cento. Il primo turno scompiglio i piani soprattutto tra i figli del defunto Pci. Il nome di Salvemini era stato fatto 48 ore prima della presentazioni delle liste in quanto il Pds in quel periodo pagava la contrapposizione tra l’apparato chiuso nelle stanze dei bottoni e le istanze innovative di quanti, come Pellegrino, guardavano alla società civile, in alternativa ai vecchi metodi di rappresentanza, tramandata da un funzionario all’altro. La candidatura di Salvemini porterà entusiasmo anche negli apparati. E in città più di una coscienza civile, con Salvemini, sostituirà l’“io” con il “noi” e si lascerà trasportare dall’attivismo messo in campo e dai nomi nuovi – i Di Gennaro, gli Oliva, i Maniglio su cui anche il Pds gioca la carta del rinnovamento, altrove premiato.
Rispettato da tutti in città, grande passione politica che lo aveva visto per la prima volta in Consiglio nel 1977, Salvemini gioca il secondo round immergendosi ancora di più in una campagna elettorale vivace e partecipata, ma, soprattutto, sfodera la carta sorpresa rendendo noti i nomi di coloro i quali andranno, in caso di vittoria, a formare la sua giunta. Per la città è la prima volta che ciò accade. Non solo. I prescelti erano soprattutto tecnici. Al secondo turno le liste dell’Ulivo raccolgono 27.388 voti a fronte dei 23.906 del candidato Faggiano: Salvemini vince la sfida col 53,39%.
E’ fatta. Festa in piazza, cori da stadio. La felicità è un alito di vento nuovo che si trasformerà presto in ciclone mettendo Salvemini – la bella persona che dava significato al rapporto umano, che aveva analogo rispetto per chi stava con lui e per gli avversari, che odiava le riunioni lunghe, che disprezzava i bugiardi - con le spalle al muro.
 
Si sa, l’appetito vien mangiando. E i neo eletti, fino a quel momento a digiuno di politica e convinti di dover fare semplice militanza, iniziarono a battere i pugni: chi rivendicava un posto in giunta e chi chiedeva di essere valorizzato. Il balletto, per la verità, era iniziato poco dopo la presentazione (non ufficiale) della squadra di governo in cui entreranno e usciranno diversi illustri personaggi: come Rosanna Venneri (Banca del Salento) che dirà da subito no per incompatibilità con il suo lavoro. Come l’ingegner Sarno (padre del nuovo piano regolatore); come il noto imprenditore Babbo o il docente universitario Nicola Paparella. Quest’ultimo, nella giunta costituita il 4 marzo 1996 in qualità di vicesindaco e con una sfilza di deleghe a cui dedicarsi, tre mesi dopo abbandonerà il campo. Con lui spariranno dalla squadra di governo anche Corrado Alemanno, Roberto Capone, Maria Marcella Rizzo, Gianluigi Pellegrino (che ritornerà più avanti come vicesindaco) e l’ingegnere Luisella Guerrieri. La nuova Giunta – costituitasi il 17 maggio - si reggerà sui superstiti Sergio Ventura e Loredana Capone e sull’autorevolezza di personalità del calibro di Giovanni Invitto, Salvatore Calogiuri, Paolo De Lorenzo, Giovanni Scognamillo, Corrado Sideri e Gianni Turrisi il quale sosterrà anche l’opera di mediazione fra esecutivo e consiglio quando lo scontro inizia a farsi duro, specie con i socialisti Bosco e De Riccardis.
Fibrillazioni continue che Salvemini vive con grande sofferenza personale. Il contesto politico è rovente, la minaccia di essere sfiduciato costante. Clima da assedio. Colpi bassi. Lo fiaccarono così, lentamente. Inesorabilmente il suo profilo di innovatore andò via via appannandosi e dopo la crisi venne la sfiducia firmata dall’opposizione con il sostegno di un pezzo della maggioranza. Eppure di iniziative in favore della città ne chiuse più d’una. Con Salvemini si instaurò il rapporto per l’attivazione dei fondi comunitari, si avviarono i progetti per la ristrutturazione del conservatorio di Sant’Anna e del complesso dei Teatini, tutto il Programma Urban, la ristrutturazione del castello, la condotta a mare, e molto si spese per istituire l’azienda unica dei trasporti. Una novità su tutte: la chiusura di una parte del centro storico.
La storia finisce che Salvemini si ricandida contro la vincente Poli Bortone ma con lui centrosinistra otterrà il risultato più alto in questa città: 43,78% e ben 26.677 voti, quasi 5mila in più di quando fu eletto sindaco.

La città aveva capito. E, diversamente dai politici suoi alleati, non l’aveva tradito.

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