L’avvocato gentiluomo dell'ultima epoca democristiana

L’avvocato gentiluomo dell'ultima epoca democristiana
di Angela NATALE
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Venerdì 2 Giugno 2017, 21:55

Prima dice no, poi dice ni. Sarà sì. Sì convinto se a chiedertelo è - in quel di Maglie - il caro amico Totò, alias Salvatore Fitto. La passione per la politica nasce così nell’avvocato civilista Ottorino Fiore. Per affetto. Perché gli avevano toccato le corde giuste. Perché era una persona buona, genuina, dolce e agli amici, quelli veri, teneva.
Non se n’è mai pentito. Non quando - designato dal monocolore Dc e Pri alla carica di sindaco dopo le dimissioni di don Ciccio Corvaglia - passava le nottate a far quadrare i numeri ed evitare lo scioglimento del Consiglio. E neppure quando - abbandonata la poltrona di primo cittadino (dopo appena 217 giorni di mandato) sulla quale poteva stare comodamente (?) seduto per altri 15 mesi - si lasciò persuadere a candidarsi alle Politiche.
Non sarà più sindaco, Fiore. Non sarà mai onorevole. Beffato, nella corsa al Parlamento dal giornalista Giuseppe Giacovazzo, il quale all’ultimo minuto aveva sparigliato le carte avocando a sé la candidatura al Senato prenotata per Fiore e lasciando all’ex sindaco quella per la Camera. Missione impossibile, lo sapeva bene l’avvocato leccese. In corsa, nel suo stesso collegio, c’era Adriana Poli Bortone, sua carissima amica di gioventù e agguerritissima avversaria a Palazzo di Città dove la lady di ferro dell’Msi e futuro ministro dell’Agricoltura nel primo governo Berlusconi si era fatta le ossa assistendo ai balletti della maggioranza a guida Dc, ai suo scatti umorali, agli estenuanti diktat correntizi che si riverberavano sulla città, immobile e sconfortata. Alla domanda se si fosse mai pentito, Fiore – schietto - rispose di sì. Ma non per essersi messo al servizio del partito, «sapevo di sacrificarmi e non volevo dare alibi». Quanto perché «in buona fede credetti a quella parola d’onore».
L’uomo era così. Orgoglioso, sincero, leale. E intellettualmente onesto. Oppositore del partitismo all’epoca imperante, a Palazzo di Città fu vittima dei pruriti e della “litigiosità perpetua” della sua maggioranza” e dei poteri forti (e occulti) che, suo malgrado, gli ronzavano attorno. «La logica politica e imperante – raccontò in un’intervista due anni dopo la sua definitiva uscita di scena – era che la giunta da me giudicata dovesse cadere a ogni costo perché c’era chi pretendeva ad ogni costo di fare l’assessore. Con le nuove regole (elezione diretta, ndr) mi sarei trovato meglio. Oggi Stefano Salvemini, forte della legge 81, ha un potere effettivo».
Povero Salvemini, anche lui sarò cucinato a fuoco lento dagli amici di cordata, ma questa è un’altra storia anche se le trame si assomigliano. Quella di Fiore nasce ufficialmente nel cuore della notte (ore 0.40) il 13 maggio 1993 e, a leggere i quotidiani del mattino, non promette lunghe e serene cavalcate e progetti a lungo termine. D’altronde, nei giorni precedenti, mentre si cercava la quadra, molti consiglieri si erano sbizzarriti etichettando l’esecutivo bicolore su cui da giorni e giorni si ragionava, “giunta-laboratorio”, “giunta dalla vita corta”, “giunta gradino”, “giunta del terrore delle urne”, giunta in...incubatrice”. Intanto, l’amministrazione comunale numero 17 - dal Dopoguerra - nasce nel nome di Fiore, all’epoca 48enne, in Consiglio dall’85 e assessore con Augusto Melica e Ciccio Corvaglia. Ma vedrà una luce fiocca e solo grazie a un voto tecnico del repubblicano Borgia, peraltro durissimo con la soluzione del governo bicolore data alla crisi ma certo che presto sarebbe stato completo rimescolamento.
Eletto con 21 voti su 40, anche il sindaco, a caldo, si era definito «serenamente preoccupato». Ma anche fiducioso di riuscire - operazione futura -a riportare a casa gli ex alleati (Psi, Psdi, Pli unitisi in “Alleanza per il progresso”), nella logica di una maggioranza più ampia e stabile delle larghe intese. Questo prima passo andava letto come occasione per rimboccarsi le maniche e svelenire, parola di sindaco, «l’atmosfera mefitica e stagnante» che aleggiava in un Palazzo in cui, per il primo cittadino, dovrebbero esserci «40 operai e nessun direttore d’orchestra».
Gli operai ritorneranno presto in sciopero e affileranno le armi della guerriglia. E, in quanto al direttore d’orchestra, qualunque musica suonasse non andava mai bene. Tanto che, il 12 luglio, Fiore minaccia: «Adesso basta, domani mi dimetto, ma fate presto a risolvere la crisi». Andrà avanti così per un bel po’, tra solidarietà e boicottaggi, carezze e pugni nello stomaco.
Uomo forte, Fiore. Uomo libero. Uomo sincero. Mai ha tradito gli amici, ricorda chi lo aveva e sentiva vicino. E, soprattutto, mai ha dimenticato le sue origini sarde (Iglesias, terra di minatori) da parte di madre (Nenè Tornù) e campane di padre (Renato, medico condotto a Postiglione, paesino abbarbicato su un cocuzzolo dei monti Alburni). Miscela esplosiva: dalla madre aveva preso la cocciutaggine e la generosità. Dal padre aveva ereditato la semplicità e l’attenzione verso il prossimo. Tutto gli tornerà utile quando sceglie, da quotato avvocato, di misurarsi con la politica; o quando, dalla politica accerchiato, combatterà senza mai perdere la dignità. A Leccisi che in un incontro presso la segreteria Dc gli chiedeva le dimissioni da assessore perché gli disse «ci sono esigenze pimarie del mio gruppo», rispose che non avrebbe accettato imposizioni da chicchessia e che si sarebbe fatto da parte solo in una logica di ricambio totale.
Non esisteva l’io, per lui, per quanto la vanità - parola di moglie - non gli facesse difetto.

E, nell’interesse di tutti, era pronto a sacrificarsi. Prima però voleva mettere mano alla macchina burocratica, renderla efficiente, e dopo l’ordinanza del Tar, sbloccare con una nuova delibera l’affidamento dei lavori della tangenziale Est. Due esempi a cui si aggiunge la semi rivoluzione del traffico. «In quelle condizioni ambientali poco potevo fare», ripeteva. Ricordando, dulcis in fundo, l’inaugurazione in forma solenne del teatro Paisiello, fresco di restauro. Fu una serata nera (con contestazioni, aggressioni, lancio di uova, parolacce da parte di militanti futuri consiglieri) di cui non si pentì. Almeno con la cultura la città poteva volare alto.

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