Negramaro a Galatina, «Una festa a "casa". Il viaggio di ritorno di un gruppo di amici»

Negramaro a Galatina, «Una festa a "casa". Il viaggio di ritorno di un gruppo di amici»
di ​Salvatore SANGIORGI
8 Minuti di Lettura
Sabato 12 Agosto 2023, 17:01 - Ultimo aggiornamento: 13 Agosto, 11:39

Le dita della mano, finito di tormentare la collana di pietre colorate al collo, tamburellano nervosamente sulla coscia. Quello è il modo che ha Giuliano di dire che qualcosa lo turba, senza però comunicare a nessuno il suo disagio. Perché lui non vuole trasmettere ansia a nessuno. Mai.
Io so che a impensierirlo non è tanto la moltitudine di persone che si riverserà in un aeroporto militare, né la serie di telecamere che avrà sempre puntate addosso per la realizzazione di uno speciale per la Tv di Stato e di un docu-film per le sale cinematografiche ed i Festival di mezza Europa. Io so che ad agitarlo è il viaggio che stiamo facendo.
Non il tragitto, ma la meta.
Da poco atterrati a Brindisi, siamo già diretti verso il “Fortunato Cesari” di Galatina per i primi sopralluoghi. Lì si terrà il tanto atteso evento celebrativo dei primi vent’anni di carriera dei “negramaro”, nome scelto con cura, volutamente con l’iniziale minuscola, in omaggio al minimalismo dei Radiohead e all’umiltà dei frati minori, e con una lettera di colore diverso, come la “Nutella”, balsamo prodigioso per generazioni di malinconici sognatori. “N20 Back Home”, il nome di questo specialissimo genetliaco per il ritorno a casa di un gruppo di amici.
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Sento i pensieri di Giuliano ribollire. Perciò, quella in cui il signore al volante all’improvviso s’imbatte sembra una semplice richiesta. Quello che invece io capisco è che mio fratello ha deciso di darci un taglio, reagendo, come sempre, a modo suo. «Mi piacerebbe ascoltare “Quannu te llai la facce”, cantata da Franco Battiato, alla “Notte della Taranta” del 2004. Ce l’ha?», chiede in tono cortese, ma fermo, Giuliano. L’impercettibile smorfia di un sorriso tradisce l’inaspettata visita di un ricordo. Gli è bastato quel po’ di musica e grazia d’altri tempi per riconciliarsi con il mondo, tanto da sentirsi di nuovo pronto ad affrontare i fantasmi del viaggio, le sue voci di dentro e quell’indecifrabile mistero che resta il Salento, terra generosa che nutre di sé, ma svezza anche in fretta, che accoglie e protegge, ma insegna subito anche a volare, “per raggiungere orizzonti più lontani, al di là del mare”.
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Ricordi: lui è davvero piccolo. Avrà sì e no cinque anni. Gli incisivi separati da una simpatica “carassa”, regalo di un ciuccio usato più del raccomandabile. Due cicatrici sotto il mento, dono invece della spalliera di una sediolina di legno. È seduto tra me e il suo alter ego biondo, cioè nostro fratello Luigi, quasi suo coetaneo, all’interno di una Fiat 128 verde, quella di mio nonno, lanciata verso l’aeroporto di Galatina, a pochi chilometri da Copertino, dove abita tutto il ramo materno della nostra famiglia. È il 4 novembre e “corriamo”, tra gli ulivi ancora argentati. Andiamo a vedere la Pattuglia Acrobatica delle “Frecce Tricolori”. E mentre noi “tre piccoli fratellin” siamo tutti eccitati all’idea delle traiettorie ardite del pilota solista, mio nonno, invece, pregusta “li zanguni e le cicore reste” che coglierà con la sua fedele zappetta nei campi adiacenti alle piste di decollo. Quasi a volerci educare sulla necessità di avere sempre le ali sporche di terra.
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«Galatina, aeroporto!», l’esultanza esageratamente liberatoria dell’autista sbriciola di colpo il mio flashback a occhi aperti. Siamo nel bel mezzo di un Tour che, macinando, come il precedente tra l’Italia e l’estero, un sold-out dietro l’altro, è ormai approdato alla fase finale della sua terza tranche, pensata per soddisfare la “grande richiesta” di uno splendido pubblico mai sazio: tre date consecutive alla magnifica Arena di Verona, che segnano il nostro ritorno là dove, in qualità di rock band italiana, abbiamo stabilito uno dei nostri primati storici più importanti, al pari di quelli poi conseguiti anche a San Siro e alle Terme di Caracalla. 
Tutta l’“allegra brigata”, non appena ricompattatasi all’ingresso del campo di addestramento al volo, si dirige subito verso il palco, già montato e pronto per l’ispezione. Mentre li guardo in faccia, uno a uno, mi accorgo però che lontani sembrano i tempi degli inizi. Quando partivamo stipati come sardine, dopo aver caricato “a tappo” il furgoncino noleggiato qualche ora prima. Era l’epoca in cui gioivamo quando locali come il “Candle” di Lecce, o il “Triade” e il “Ritual” di Copertino, poche ore prima di un nostro live, si sbarazzavano in gran fretta di panche, tavoli e sedie. Segno inequivocabile che un botto di gente, di lì a poco, avrebbe invaso quei posti, scatenandosi al ritmo della nostra musica inedita. E poi con i nostri cd, quelli col robottino di latta in copertina e la scritta “info-line”, seguita da un unico numero di telefono. Di un’abitazione privata. La nostra. Quando a prendere la chiamata era mio padre, mio fratello si precipitava a strappargli dalle mani la cornetta perché sapeva avrebbe detto «C’è al telefono un perfetto sconosciuto. Ti vuole!», facendo in modo che sentisse bene chi aveva appena chiamato senza presentarsi, chiedendo solo «C’è Giuliano?!». 
Ah, mio padre… Che spillava lentamente i fogli della bolletta telefonica. E di colpo sbiancava non appena leggeva l’importo. Tanto che quando vincemmo un ambitissimo premio nazionale per giovani band, messo in palio da un noto marchio di telefonia mobile, a lui scappò soltanto un laconico «Ve lo dovevano». Subito seguito da un amaramente ironico «Se non altro perché siamo soci fondatori e azionisti di maggioranza». 
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Agli inizi si viaggiava di notte, dandoci il cambio alla guida, alla velocità massima, salva-consumi, di 80 km/h. Pronti? Via! E all’altezza di Brindisi avevamo già finito tutte le vettovaglie preparateci con amorevole cura dalle nostre famiglie, il loro modo discreto di puntellare i nostri sogni. Le prime ad andarsene, tra lo sconforto generale, erano le croquettes di pollo di mia madre, ribattezzate “pepite”. Seguivano le focacce farcite delle altre mamme. Chiudevano i famigerati e improbabili panini “tonno e salame ‘mara’”. Il tutto annaffiato da un corposo negroamaro, gentilmente offertoci dal proprietario di quella cantina che per anni è stata la nostra sala prove. Chissà, comunque, cosa ti spinge a mangiare non appena parti. Forse la paura di allontanarti troppo dalla tana.
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Adesso, però, i ragazzi sono giunti davanti al palco. Iniziano a prendere confidenza con l’imponente struttura e a prefigurarsi quello che sarà: l’energia della gente, i tanti ospiti e un’attesa durata quasi un quarto di secolo: vent’anni di primati e di successi. Una festa nella festa, insomma. 
D’improvviso, uno di loro si stacca dal gruppo, avanzando, col cuore negli occhi, nella mia direzione. Nemmeno il tempo di chiedergli «Tutto ok?» che comincia a parlarmi, trasmettendomi tutto il suo entusiasmo. “Ci fabbrica e sfabbrica no’ perde mai tiempu!”, penso un po’ sconfortato al fatto che questa vita frenetica non dia il tempo di assaporare niente. E mi predispongo ad ascoltare. Non sarà una normale chiacchierata, ma un monologo visionario, ricco di spunti artistici.
Come quella volta in pulmino, al termine di uno dei nostri mille concerti in giro per l’Italia, all’epoca solo “back to back”, quando il mio attuale interlocutore batté il record di ogni risposta, terminando di parlare solo molti chilometri e ore dopo, esclamando all’improvviso, tra l’incredulità generale, «Burrone!». Quasi in preda alle vertigini, sull’orlo del precipizio di un anacoluto. 


Mentre mi parla, mi vengono in mente tutte le cose dette prima della realizzazione dell’artwork di ogni copertina. Così ripenso all’omino con le ali in testa de “La Finestra”, alla scultura in vetro, prototipo dell’“Uomo-Cuore” di “Casa 69”, ai sei pianeti colorati di “Una storia semplice”, al microfono sul dischetto di rigore di “Un amore così grande”, colonna sonora dei Mondiali di calcio del 2014, al volto bambino di mia figlia Maria Sole di “Amore che torni”. Anche se forse è l’ambiguo “Jolly Roger” bianco su fondo scuro de “La Rivoluzione sta arrivando”, a rappresentare più di tutti il lavoro, di concetto e di tecnica, che c’è dietro la realizzazione di una cover di successo. Allora come oggi, su questo palco grande quanto una pista d’atterraggio, il demiurgo al mio fianco gesticola come un italiano all’estero, mimando ogni parola con lunghe mani da bassista. Lui non ama guidare. Eppure, con i primi soldi guadagnati con la musica, ha acquistato un’auto, tuttora custodita in una caverna dall’entrata segreta. Una “Fiat Multipla”, l’unica, nelle sue fantasie, in grado di ospitare tutti e sei i Negramaro per un viaggio al centro della Terra o un giro del mondo in ottanta giorni. O una missione sulla luna, magari alla ricerca del senno perduto di Orlando. Come giurava di fare Giuliano in “Astolfo”, quando non ancora mainstream.
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