Chiara Ingrosso: «I mostri? Non esistono: la loro umanità fa paura»

Chiara Ingrosso: «I mostri? Non esistono: la loro umanità fa paura»
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Martedì 12 Marzo 2024, 05:00

«Anche il mostro di Firenze avrà detto “Buongiorno” a qualcuno, qualche volta», afferma provocatoriamente Roberto Benigni in un suo spettacolo. Ed è forse proprio la consapevolezza di questa inspiegabile ordinarietà, spesso sottesa ai più efferati atti delittuosi, a spaventare e, allo stesso tempo, generare morboso fascino nella gente cosiddetta normale. Quanto il true crime rappresenti ad oggi uno dei temi maggiormente seguiti e apprezzati da una platea sempre più vasta, lo testimonia il rapido e crescente proliferare di programmi, libri, podcast e serie, con al centro protagonisti (più o meno noti) di omicidi brutali e violenze inaudite. Attribuire alle vittime il ruolo di martiri e agli assassini quello di carnefici rappresenta l’approccio più immediato e naturale per chi legge, vede o ascolta contenuti simili; si tende spesso a calarsi nei panni di chi subisce il delitto o la violenza, quasi contentandosi del fatto di non essere al suo posto. Ma cosa succederebbe se si provasse a fare l’esercizio opposto, vale a dire quello di immaginarsi nei panni del carnefice? È quello che cerca di fare Nora Lopez, protagonista del primo romanzo della giornalista investigativa Chiara Ingrosso.


“La regola di Nora”, questo il titolo del libro, edito da Feltrinelli per la collana Italian Tabloid 2024, è il racconto, ripercorso attraverso l’esperienza della sua protagonista (giovane nerista ella stessa), del duplice omicidio che nel 2020 sconvolse Lecce, città d’origine dell'autrice, e la sua comunità. 
Il 21 settembre di quell’anno, il poco più che vent’enne Antonio De Marco, all’epoca studente in scienze infermieristiche, uccise con circa ottanta coltellate una coppia di giovani suoi coinquilini, Daniele De Santis ed Eleonora Manta, poiché “geloso della loro felicità”. Un movente raro e così inconsueto che ha spinto Chiara Ingrosso a fare del caso la fonte ispiratrice di questo suo primo romanzo. Ingrosso, attualmente collaboratrice del programma Quarto Grado ed esperta di cronaca nera (basterebbe citare al riguardo, le sue inchieste sull’omicidio Varani, sul giallo di Serena Mollicone o la scomparsa di Liliana Resinovich), sarà ospite questa sera alle 19 presso la libreria Liberrima di Bari (Via Calefati, 12), per presentare, in dialogo con il giornalista Antonio Procacci e la criminologa Antonella Pesce Delfino, un libro in grado di trarre dall’intreccio tra true crime e dark comedy una forma di narrazione inedita intorno al lato oscuro dell’umano.


Chiara Ingrosso, antitutto perché scegliere proprio questo delitto come materia del primo romanzo?
«Non sono io ad aver scelto il delitto, ma direi piuttosto che è stato il delitto a scegliere me. Per vocazione, noi neristi siamo abituati a trattare casi di cronaca, cercando di indagare le ragioni alla base di una mente omicidiaria. Quando però mi sono trovata a trattare, assieme al collega Nicola Lagioia, il caso Varani, mi sono per la prima volta confrontata con un lato dell’umano così buio e invisibile da spingermi ad analizzarlo meglio. L’omicidio De Marco, commesso, per altro, contro miei coetanei e nella mia città, mi ha dato, in questo senso, la possibilità di osservare dallo stesso spioncino e, dunque, interrogarmi sulla densità imperscrutabile della mente criminale».


Ci sono delle regole che si è imposta nella scrittura del libro e che, più in generale, si impone come giornalista per evitare di cadere nel rischio di una narratività morbosa? 
«L’affidabilità delle fonti prima di tutto. Ritengo che noi cronisti, da bravi garantisti, dobbiamo essere dei semplici relatori di fatti già accertati da carte giudiziarie; altrimenti, si rischierebbe di diventare schiavi, come spesso accade, della curva dello share, arrivando a distorcere, come sta succedendo ora per la vicenda di Olindo e Rosa, anche verità già accertate. Senza poi considerare le estreme conseguenze che ciò comporta sulla pelle di chi si trova affibbiato uno stigma sociale, conseguenza di campagne denigratorie immorali e mal gestite».


“I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno”: è questo, il titolo di un noto manuale di psichiatria forense. Mi ha fatto venire in mente la figura di Nora Lopez, che immagina di uccidere, ma non lo fa. Secondo lei, cosa costituisce il confine che trattiene i buoni dal tradurre in atto i loro impulsi?
«La sincerità con se stessi. Nora Lopez, grazie alla sua psicoterapista, snocciola i propri impulsi, dando loro spessore e riportandoli entro i confini del razionale. Credo che la generazione Z sia, a differenza delle precedenti, molto più aperta ad accogliere la cura dell’anima e della psiche come questione ben lontana da un approccio meramente patologico. Penso che questo possa solo aiutare a immaginare un futuro diverso e più consapevole».


Quello di De Marco, è un movente “raro” per un killer. Per un motivo pressoché analogo, nel 2002, Daniela Cecchin, impiegata comunale fiorentina, uccise a coltellate la moglie di un suo vecchio compagno d’università. Nulla, in entrambi i casi, avrebbe fatto presagire atti di così estrema violenza da parte di due persone apparentemente ordinarie. Ma quindi, esistono i mostri o è solo una rassicurante eredità che ci trasciniamo da Lombroso?


«Daniela Cecchin aveva, come De Marco, una religiosità deviata, che la induceva a considerare il destino di un uomo predeterminato e immutabile. L’assenza di relazioni sociali, altro elemento che l’accomuna con l’omicida leccese, le aveva inoltre impedito di creare occasioni per gestire la propria frustrazione. Il mostro non esiste, quindi; è una forma di rassicurazione che si utilizza per eludere questo lato oscuro di noi da ciò che, in realtà, è e resta umano. Riconoscere un omicida come uomo e raccontarlo in quanto tale è la prima responsabilità che, come giornalisti, dovremmo assumerci».

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