Sanità, ospedali pubblici nel caos: lascia un medico al giorno. Al Sud insoddisfatto il 64%

Sono sempre di più i camici bianchi che lasciano le corsie degli ospedali per avere condizioni di lavoro migliori, maggiore tempo libero e stipendi più alti, che spesso finiscono per trovare in strutture sanitarie private o all’estero

Sanità, ospedali pubblici nel caos: lascia un medico al giorno. Al Sud insoddisfatto il 64%
Sanità, ospedali pubblici nel caos: lascia un medico al giorno. Al Sud insoddisfatto il 64%
di Andrea TAFURO
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Lunedì 19 Giugno 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 08:57

Un medico al giorno abbandona la sanità pubblica per passare nel privato. Gli ospedali si svuotano e la crisi degli organici, già interessati dalla “gobba” pensionistica di questi anni, si aggrava ulteriormente con interi reparti al collasso. La sanità pugliese arranca, il caso dello stop temporaneo a ricoveri e operazioni nelle unità di Chirurgia dei nosocomi dell’Asl Brindisi è tra i più eclatanti e complessi da risolvere: se ne discuterà al vertice convocato per venerdì 23 giugno dall’assessore regionale Rocco Palese che, mercoledì, porterà l’emergenza sanitaria pugliese sul tavolo della Conferenza Stato Regioni.

Intanto sono sempre di più i camici bianchi che lasciano le corsie degli ospedali per avere condizioni di lavoro migliori, maggiore tempo libero e stipendi più alti, che spesso finiscono per trovare in strutture sanitarie private o all’estero.

I numeri

Nel 2021 la media nazionale dei medici dipendenti che hanno deciso di licenziarsi è stata del 2,9%. La Puglia ha fatto registrare il 3,3%, una percentuale oltre la media italiana così come per la Calabria 3,8% e la Sicilia, 5,18%.

Prerogative professionali e opportunità di carriera ricercate soprattutto dai giovani, mentre tra i medici più avanti con l’età compare l’esigenza di una maggiore sicurezza sul lavoro. E la fascia di età più in crisi è quella tra i 45 e i 55 anni. Sul tavolo del confronto, che è importante causa anche dei diversi ripensamenti, le condizioni economiche contrattuali: ad esempio un anestesista rianimatore con 30 anni di carriera in un ospedale pubblico incassa a fine mese circa 4mila euro base, mentre un collega in servizio nella sanità privata, con identica specializzazione e funzione, può raggiungere i 10mila euro mensili di stipendio.

Una differenza economica che non deriva però dai contratti collettivi nazionali (in parte più stringenti e penalizzanti per il settore privato soprattutto nei casi di responsabilità medica), bensì dall’applicazione di incentivi nei rapporti individuali di lavoro tra azienda sanitaria privata e lavoratore, e da una minore tassazione per chi sceglie l’extramoenia con partiva Iva. Il privato pertanto diventa sempre più attrattivo, anche per la possibilità di un trattamento fiscale agevolato. A conti fatti quindi, dopo gli anni della pandemia Covid, tra turni doppi, stress e sintomi da “sindrome da burnout”, i medici del Servizio sanitario nazionale hanno sempre più voglia di mollare il camice bianco.

Lo scenario

Lo scenario è evidenziato da un sondaggio del sindacato dei medici ospedalieri “Anaao Assomed”, realizzato all’inizio dell’anno, a cui hanno risposto oltre 2.100 tra medici e dirigenti sanitari. L’analisi conseguente ha quindi portato i medici a ragionare sul loro ruolo nella sanità pubblica, considerata sempre meno accogliente, gratificante e disposta a tutelare il proprio personale. Inoltre, tra i sanitari in servizio serpeggia sempre più il malumore per l’assenza di ricambio generazionale nelle unità di emergenza urgenza: 118, Pronto soccorso e rianimazione. Specialità che nel privato non ci sono, lasciando così liberi i camici bianchi di programmare al meglio attività professionale e vita privata. «Il quadro che emerge lascia presagire il progressivo declino della sanità universalistica almeno per i prossimi cinque anni. Se l’inversione di tendenza arriverà, sarà visibile dal 2030» è l’indicazione dei sindacati del comparto sanità. A pesare sulla previsione, forse, anche il fatto che l’Italia spenda solo il 6,1% del Pil per la sanità, cifra ben al di sotto della media europea dell’11,3%. Nel dettaglio dei numeri, la metà tra medici e dirigenti sanitari intervistati (56,1%) è insoddisfatta delle condizioni del proprio lavoro e uno su quattro (26,1%) anche della qualità della propria vita di relazione o familiare. Una insoddisfazione che cresce con l’aumentare della anzianità di servizio e delle responsabilità, tanto che i giovani medici in formazione (24,6%) si dichiarano meno insoddisfatti dei colleghi di età più avanzata (36,5%), tra i quali si raggiunge l’apice nella fascia di età tra i 45 e i 55 anni, un periodo della vita lavorativa in cui si aspetta quel riconoscimento professionale che il nostro sistema, però, non riesce a garantire. Sempre secondo il report Anaao, la crisi della professione è più sentita nel Meridione rispetto al Nord: il 53,6% del Nord, il 56,3% del Centro e il 64,2% di insoddisfatti nel Sud e isole. Per i sindacati, la voglia di migrare dei medici verso la sanità privata è divenuta «un sintomo inequivocabile di quanto il lavoro ospedaliero sia causa di sofferenza e di alienazione. A questo si aggiunge anche l’assenza di gratificazione professionale e gli stipendi più bassi rispetto ai colleghi europei o in attività nelle strutture del privato e privato convenzionato».

«Ma non è soltanto una questione economica. Nella sanità privata – spiega un professionista dipendente di una grande clinica privata - gli stipendi per i medici in dipendenza (contratti dell’associazione italiana ospedalità privata Aiop) sono equiparabili al settore pubblico, e in alcuni casi sono anche meno vantaggiosi, se si considerano ferie e tutele giuridiche. I professionisti scelgono la sanità privata perché funziona meglio e questa consapevolezza riguarda un po’ tutte le professionalità del comparto sanitario. Nel privato c’è un ambiente attivo e stimolante, dove chi lavora viene responsabilizzato. C’è meno burocrazia e si lavora tutti per un unico obiettivo».

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