L'ex Ilva ora è a un bivio: serve liquidità, ma patti chiari con Arcelor Mittal

L'ex Ilva ora è a un bivio: serve liquidità, ma patti chiari con Arcelor Mittal
di Domenico PALMIOTTI
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Domenica 1 Ottobre 2023, 12:30 - Ultimo aggiornamento: 2 Ottobre, 07:04

Per un'azienda, l'ex Ilva di Taranto, che da ben 11 anni é in bilico, dire che adesso è giunto il momento di fare presto e soprattutto bene, potrebbe anche far sorridere (ma come, ve ne accorgete adesso?) e provocare più d'una perplessità (credete ancora nella possibilità di rilanciare l'ex Ilva?). Tuttavia, quel presto e bene non ha alternative. E non solo per le motivazioni note, e cioè azienda strategica per l'economia nazionale e il suo impatto sul Pil del Paese, riferimento per la manifattura industriale (basta considerare quanti beni derivano dall'acciaio) e bacino di occupazione (solo a Taranto 8.200 dipendenti diretti, anche se 2.500 ora stanno in cassa integrazione, cui bisogna aggiungere alcune migliaia dell'indotto).

L'urgenza

Ora il punto dell'urgenza è dato dal fatto che l'ex Ilva è probabilmente come non mai vicina ad un punto di ritorno. Senza soldi, con poche materie prime, con impianti che continuano a restare fermi (altoforno 1 e acciaieria 1) e con la cassa integrazione che ininterrottamente va avanti da luglio 2019, cioè pochi mesi dopo l'arrivo di ArcelorMittal, 1 novembre 2018. E ancora: con la fornitura di gas in default scaduta il 30 settembre, con una produzione inchiodata da anni a livelli molto bassi e che quest'anno sarà di circa 3 milioni quando l'azienda aveva dichiarato che ne avrebbe fatto 4, con l'indotto non pagato o pagato in grande ritardo e, certamente non ultimo, con un rapporto pessimo con i sindacati e le istituzioni di Taranto. Una delle precondizioni per evitare il collasso dell'azienda è quella di ridarle liquidità. Perché questo serve a ripristinare un minimo di normalità, consentendo l'acquisto delle materie prime e il pagamento di fornitori e indotto. Non è che i soldi siano proprio mancati ad Acciaierie d'Italia, ecco il nome dell'ex Ilva dalla primavera del 2021, società nella quale convivono con molta fatica la privata ArcelorMittal (una multinazionale big mondiale dell'acciaio) con la maggioranza del 62 per cento e la pubblica Invitalia con la minoranza del 38. Nei mesi scorsi, per esempio, a valle di un nuovo decreto legge, Invitalia ha staccato per AdI, col placet del Governo, un assegno da 680 milioni. Ma evidentemente questi soldi sono finiti se AdI reclama nuovamente ossigeno.
Il bisogno di liquidità ha però una causa a monte, che Franco Bernabé, presidente di AdI, più volte ha spiegato (Bernabé che negli ultimi giorni è tornato a sollevare la gravità della condizione dell'azienda mettendo il suo mandato nelle mani del Governo). Quale è la causa a monte? Che Acciaierie d'Italia è davvero un'azienda atipica. Ha un azionista di maggioranza, Mittal, ma se ne disinteressa. Non gli assicura il supporto finanziario che serve e anzi, dalla primavera del 2021, l'ha pure deconsolidata. Cioè l'ha fatta uscire dal perimetro della multinazionale come se fosse un corpo estraneo. A ciò si aggiunga che l'azienda non ha sufficiente circolante, non dispone di un adeguato castelletto bancario, non è bancabile avendo gli impianti sequestrati dal 2012 sia pure con la facoltà d'uso, e in passato, per respirare, ha effettuato delle operazioni di cartolarizzazione di crediti commerciali (1,5 miliardi). In sostanza, al di là dell'intervento pubblico, Acciaierie d'Italia ha cercato di vivere (barcamenandosi) con le risorse generate dalla sua attività. Che AdI viva questa condizione l'ha evidenziato a maggio, nell'assemblea di Federacciai, anche il presidente Antonio Gozzi. E non si faccia sempre risalire l'origine di tutti i guai (e l'Aventino di Mittal) alla revoca nell'autunno 2019 da parte del Governo Conte I dello scudo penale (tema sul quale spesso insiste l'ex ministro Carlo Calenda, in carica a giugno 2017 col Governo Gentiloni, quando, al termine di una gara, l'ex Ilva, sino a quel momento gestita dai commissari dell'amministrazione straordinaria, fu assegnata a Mittal). Non che la politica e i Governi non abbiano responsabilità, ma a quella revoca, che provocò il disimpegno di Mittal, è seguito un accordo a marzo 2020 (che ha pure sollevato Mittal dall'onere di riassumere i 1.600 cassintegrati dell'amministrazione straordinaria dopo agosto 2023) e sono seguiti, soprattutto, i 680 milioni di Invitalia e due decreti di quest'anno. Il primo dei quali ha ripristinato lo scudo penale mentre il secondo è intervenuto su sequestro e confisca degli impianti, tutelando produzione e società, e potere di ordinanza del sindaco. In sostanza, il contesto é cambiato, e molto anche, e il privato certo non può dire di trovarsi sempre tra le ostilità.
Tutto questo è stato fatto anche per spingere Mittal a dare segni di vita su Taranto. A presentare un piano industriale che fosse espressione di ripartenza e rilancio. Ma segnali non ce ne sono stati. Probabilmente perché, come dicono importanti industriali siderurgici, "la sensazione è che Mittal non voglia investire più nei suoi stabilimenti che funzionano in Europa, figuriamoci se ha voglia di investire a Taranto. È un'operatore globale, ha di fronte a sé il mondo, ha comprato la seconda siderurgia indiana, Paese nel quale, in 10 anni, passeranno da 130-140 milioni di tonnellate a 250 milioni, e ora come target ha Asia, Stati Uniti e Brasile, non l'Europa". Facendo una serie di passi, l'attuale Governo ha quindi cercato di scardinare Mittal dalla sua posizione di reticenza, dichiarando che altrimenti lo Stato avrebbe preso la maggioranza dell'azienda. Era la linea del ministro Adolfo Urso. Ma ora è prevalsa la linea del ministro Raffaele Fitto. Niente Stato in maggioranza, niente nazionalizzazione, si tratta con Mittal (attraverso l'ad di AdI, Lucia Morselli) per un nuovo accordo. Un nuovo patto pubblico- privato che stabilisca risorse, impegni, ruoli, investimenti e strategia. È molto grande, però, la sfiducia sulla possibilità di fare questo patto e di non farlo a perdere per lo Stato alla luce dell'esperienza Mittal negli anni. Si teme di avere un accordo che poi Mittal non onorerà. «Se lo Stato si impegna, anche il socio privato si deve impegnare» e «all'esito di questo chiarimento definitivo, lo Stato prenderà le sue decisioni», dichiara Giancarlo Giorgetti, ministro dell'Economia. Fitto è sicuramente consapevole delle difficoltà, di quanto Mittal sia un osso duro, di come urga avviare una ripresa e di quanto Taranto abbia bisogno di risposte chiare e concrete. Dagli investimenti per la decarbonizzazione (servono 5,5 miliardi in più anni) al rilancio produttivo, dal nuovo corso al rispetto, da parte dell'azienda, della città, delle sue istituzioni, dei lavoratori e dei sindacati. E qui sta il fare bene richiamato all'inizio. Perché consentire il lavoro e la produzione, non può e non deve mai significare farsi sopraffare da un privato. Né bengodi, né assalto alla diligenza. Le regole valgono anche per Mittal.
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