Giulia è morta e con lei muore un poco – o molto – di noi. Siamo come in un abisso. Quasi senza accorgercene, pur parlandone continuamente. La tragedia punteggia la vita quotidiana quasi fosse un destino ineludibile, ineluttabile. E anzi lo è: succede, è previsto che accada. La morte, poi, è stata espulsa dalla percezione comune. La sua rappresentazione tende a escludere il dolore, lo contiene, lo edulcora. Lo incanala in percorsi paralleli, anche nelle parole. Scomparso il senso della fine, scompare il senso del limite. Una sequenza ormai inarrestabile. L’estensione reale-irreale-virtuale genera spaesamento e spinge le azioni verso scenari inediti, paurosamente normali. L’uomo – come genere maschile – vi aggiunge un sovrappiù: l’incapacità di collocarsi nel tempo e nella storia con un ruolo diverso, riposizionato accanto alla donna, non prima, non sopra, non davanti. Ma l’immaturità stride con le conquiste di civiltà. La violenza sulle donne testimonia la fragilità estrema degli uomini: l’impotenza è nell’incapacità di relazione.
Nel baratro delle responsabilità diffuse ci ritroviamo con i nostri modelli, i nostri stili, le nostre connessioni, le nostre insignificanze.
Profilo Abbonamenti Interessi e notifiche Utilità Contattaci
Logout