Riforme, parla Giovanni Salvi, procuratore generale di Cassazione: «Prescrizione inaccettabile finché il processo è attivo»

Giovanni Salvi
Giovanni Salvi
di Rosario TORNESELLO
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Venerdì 7 Febbraio 2020, 12:13 - Ultimo aggiornamento: 13:36

Oggi si apre a Lecce il convegno per ricordare Vittorio Aymone, avvocato e insigne giurista, a dieci anni dalla sua scomparsa. Lei dottor Giovanni Salvi, da novembre procuratore generale della Corte di Cassazione, nato e cresciuto a Lecce in una famiglia di avvocati, terrà l'intervento di apertura. Cosa resta di una figura così importante?
«La caratteristica fondamentale dell'avvocato Aymone, che lo ha fatto apprezzare anche per gli incarichi ricoperti a livello nazionale, è stata la sua capacità di legare un'oratoria razionale e lucida alla passione per i vasti interessi culturali, da leggere come sottotraccia giacché rifuggiva dall'abbondanza di citazioni. Dietro ogni suo intervento si intuiva la salda cultura classica. Per tutti un modello cui ispirarsi, anche per la figura nuova di avvocato introdotta con la riforma del processo penale datata 1989, cui pure diede impulso partecipando ai lavori preparatori».
Crede che l'avvocatura abbia interpretato al meglio il nuovo ruolo?
«La novità del rito accusatorio richiedeva un cambio di mentalità forte. Ma per come il codice è stato strutturato e attuato, ci si è in parte allontanati dal nuovo modello teorizzato. Non vi è stata una completa trasformazione, ma questo non riguarda solo l'avvocatura».
Se l'obiettivo era ridurre al minimo il ricorso ai dibattimenti in aula, favorendo riti abbreviati e patteggiamenti, la riforma ha mancato il bersaglio.
«Si pensava che solo il 10 per cento delle cause sarebbe approdata al vaglio dibattimentale, nel confronto tra accusa e difesa. È andata al contrario. Così i tempi si sono dilatati a dismisura».
Immagino abbia un'idea dei possibili rimedi.
«Ci vuole coraggio. Occorrono modifiche sostanziali del processo. Basti pensare all'appello cartolare dopo un approfondito esame in primo grado: eccessivo. Partirei da uno studio dei flussi procedimentali. Si può dire, ad esempio, che una riforma delle impugnazioni sia fondamentale. Se ne fanno in un numero che non ha pari al mondo».
Per quale motivo?
«L'aspettativa della prescrizione stimola le impugnazioni, a volte nettamente strumentali. Senza questo obiettivo, molte di quelle impugnazioni neppure si farebbero e le cause si potrebbero chiudere con rapide e snelle procedure camerali. La scommessa dei riti alternativi è fallita perché l'aspettativa pressoché certa della prescrizione ha reso quella scelta non conveniente, nell'ovvio e legittimo calcolo costi-benefici dell'imputato».
Siamo al punto nevralgico: si parla molto di prescrizione, soprattutto in questi giorni dopo l'entrata in vigore della riforma Bonafede. L'inaugurazione dell'Anno giudiziario ha riproposto in termini ancor più perentori il tema, mentre la politica è alle prese con un evidente problema.
«Il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è stato introdotto senza attendere i risultati della precedente riforma Orlando, varata nel 2017. Credo tuttavia che molte polemiche non colgano nel segno. Il problema esiste ed è molto serio».
Un blocco che opera sia in caso di condanna che di assoluzione...
«Non voglio entrare nel merito delle scelte del Legislatore, ma un punto critico è proprio in quel bilanciamento: la parificazione della sentenza di condanna a quella di assoluzione. La condanna è una statuizione di responsabilità, benché provvisoria nel nostro ordinamento, mentre l'assoluzione indica, anche nel caso di impugnazione del pubblico ministero, la sussistenza del dubbio accertato, che impone una celere delibazione definitiva».
Il processo deve comunque avere un approdo, non può restare indefinito per legge.
«Sì. Senza dubbio occorre un punto finale, cui consegua la statuizione definitiva sulla prescrizione, e ciò anche a tutela della persona offesa, che da quella statuizione potrà comunque ottenere il ristoro dei danni. Ma la prescrizione è un istituto che va correlato all'inerzia dello Stato, non solo al decorrere del tempo. Finché il processo è attivo, è assurdo che si arrivi alla prescrizione magari dopo due sentenze di condanna. Lo trovo inaccettabile e profondamente ingiusto».
Ha una possibile ricetta per contemperare le opposte esigenze?
«Sì, ma non tocca a me fornirla».
Nella sua relazione per l'inaugurazione dell'Anno giudiziario ha messo in evidenza il paradosso di un sistema in cui alla capacità della Procura nel completare le indagini non fa fronte quella del Tribunale nell'avviare i processi. Una strozzatura, per il sistema.
«È solo un esempio, ma dimostra come si rischia di privare di tutela beni giuridici ritenuti meritevoli di protezione penale. A Roma, ad esempio, sono fermi più di 30mila processi a citazione diretta davanti al giudice monocratico perché non ci sono udienze disponibili. Sono reati meno gravi, che costituiscono però la base della convivenza civile. Ma diritto penale minimo non vuol dire diritto penale inesistente. In questi casi la mancata tutela giuridica può lasciare spazio a interventi sostitutivi. Penso a quelli offerti dalla criminalità organizzata».
In un altro passaggio si sofferma sui rischi di infiltrazione delle consorterie malavitose nell'economia e nella politica. Un elemento centrale, questo, nella riflessione del procuratore generale della Corte d'appello di Lecce, Antonio Maruccia, che ha sollecitato imprenditori e sindaci a denunciare le pressioni mafiose. Crede che dietro ai silenzi possa esserci sfiducia verso un sistema giudiziario che ha tempi e procedure farraginose?
«Certo, una mancanza di fiducia può indurre effetti perversi. Per questo occorre rendere ancor più efficiente e tempestivo l'apparato repressivo e sanzionatorio. Una risposta in tempi rapidi, come vede, risolve non pochi problemi. Tuttavia il mio discorso si incentra anche su questioni meno rilevanti dal punto di vista penale, ma non per questo meno diffuse. Penso, ad esempio, agli alloggi popolari: le pare possibile che il diritto di un cittadino ad avere una casa, concorrendo legittimamente alle graduatorie, debba essere sopraffatto dalla protervia, dall'arroganza e dalla prepotenza di qualcuno? Pensi alla rottura dell'ordine sociale che simili episodi comportano. Perché tutto questo deve essere tollerato? In nome di quale diritto?».
Se il problema è la massa enorme di piccoli reati, una prima risposta potrebbe essere in una depenalizzazione mirata?
«Non credo. Un intervento di questo tipo eliminerebbe davvero poca roba. Mettiamo che in luogo della sanzione penale intervenga un provvedimento di tipo amministrativo: anche questo potrà essere impugnato. Così si torna sempre davanti a qualche giudice. No: i problemi vanno risolti alla radice, non spostati di sede». 
Lei è diventato procuratore generale della Corte di Cassazione dopo lo scandalo che, lo scorso anno, in piena estate, ha travolto alcuni componenti del Consiglio superiore della magistratura, con conseguente  pensionamento anticipato del suo predecessore. Per voi toghe, un colpo terribile. Ancor più per il rapporto di fiducia che dovrebbe legarvi ai cittadini.
«Come ordinamento non abbiamo fatto una bella figura. L'immagine data è stata pessima. Che ci siano delle correnti in magistratura è un dato di fatto, ma qui il salto qualitativo riscontrato è nell'ipotizzata relazione di scambio di richieste e favori da una parte e dall'altra. Un aspetto certamente nuovo e destabilizzante. Tuttavia, come detto e sollecitato dal capo dello Stato Sergio Mattarella, dimostreremo la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. La risposta, sotto questo profilo, è stata immediata. La Procura generale considera le sue attribuzioni in materia disciplinare, al pari di quelle civile e penale, fondamentali per contribuire allo svolgimento corretto della funzione giudiziaria».
Nel rapporto di fiducia con i cittadini, un aspetto non secondario è la comunicazione inerente le decisioni giudiziarie e l'attività svolta, in particolare dalle Procure. Uno snodo talmente delicato che proprio lì lei coglie il passaggio critico in cui il pubblico ministero rischia di perdere la propria indipendenza, al di là delle proposte di riforma costituzionale depositate in Parlamento. Perché?
«La nostra Carta assegna al Pm prerogative di autonomia e indipendenza, anche per poter svolgere il proprio lavoro senza preoccuparsi delle reazioni dell'opinione pubblica. Informare il pubblico è un preciso dovere di ufficio, tanto più importante nelle aree a forte presenza di criminalità organizzata. Al centro della comunicazione del pubblico ministero deve però esservi la protezione dei diritti individuali, in particolare degli accusati e delle vittime, tra cui la presunzione di innocenza, la dignità della persona e la riservatezza della vita privata. Non si addicono i toni enfatici, perché rischiano di generare il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. Se ci si fa condizionare da questo, spesso sotto la pressione di eventi straordinari, per quale ragione il pubblico ministero non dovrebbe finire con l'essere designato dall'Esecutivo? Se si assumono compiti che vanno al di là delle previsioni costituzionali, non bisogna poi sorprendersi di proposte finalizzate all'introduzione di possibili contrappesi».
Nella stessa proposta di riforma costituzionale, promossa dalle Camere penali, si parla di separazione delle carriere con divisione in due blocchi del Csm.
«Mi sembra un falso problema. Se l'obiettivo è la terzietà del giudice, equidistante da accusa e difesa, le cifre dimostrano come sia stato centrato da tempo: la sentenza di assoluzione interviene nel 21% dei casi, i filtri funzionano e il giudice fa il suo buon lavoro senza curarsi della comune appartenenza allo stesso Ordine del pubblico ministero. Sotto quale livello, mi chiedo, si passerebbe dalla critica alla qualità del lavoro delle Procure a quella di appiattimento del giudice sul Pm? Ma a voler estremizzare il concetto della separazione delle carriere, e sempre per la garanzia di terzietà, dovremmo poi passare a separare i magistrati del Tribunale da quelli dell'Appello, e questi dai colleghi della Cassazione... Ci sono tante ragioni istituzionali che hanno portato a questa impalcatura ordinamentale, la stessa che va estendendosi in altri paesi».
Vuol far intendere che l'Italia fa scuola?
«Da questo punto di vista, siamo un paese cui si guarda con grande interesse. Poi, per carità, ci osservano con preoccupazione per i tempi della giustizia, per il rischio penale del nostro sistema e per altri aspetti. Le assicuro, tuttavia, che in alcuni ambiti siamo un punto di riferimento».

 

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