Bruti Liberati: «Via le guerre di religione. Diamo un tempo al processo»

Bruti Liberati: «Via le guerre di religione. Diamo un tempo al processo»
di Rosario TORNESELLO
7 Minuti di Lettura
Giovedì 6 Febbraio 2020, 19:07 - Ultimo aggiornamento: 7 Febbraio, 10:38
Procuratore Edmondo Bruti Liberati, il suo libro Magistratura e società nell'Italia repubblicana (Editori Laterza, 2018), di cui pure si parlerà oggi in un convegno organizzato a Lecce dall'Associazione nazionale magistrati, si ferma di fatto all'antivigilia dello scandalo che la scorsa estate ha travolto alcuni componenti del Csm, spingendo al pensionamento il procuratore generale della Cassazione. Equilibrio, ragionevolezza, misura, riserbo, sollecitava lei, già allora, citando il presidente Mattarella. Cosa aggiungerebbe ora, alla luce dei fatti?
«Il 21 giugno dello scorso anno, intervenendo al Csm per la prima volta dopo il caso Palamara, il presidente Mattarella si esprimeva con nettezza: Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione. Diversi magistrati consiglieri del Csm e lo stesso procuratore generale della Cassazione, pur non essendo oggetto di contestazioni di rilievo penale, si sono dimessi, con un apprezzabile gesto di responsabilità a salvaguardia della istituzione. Lo stesso presidente Mattarella aveva sottolineato che è stata un'azione della Magistratura a portare allo scoperto le vicende che hanno così pesantemente e gravemente sconcertato la pubblica opinione e scosso l'Ordine Giudiziario. Ma il monito di Mattarella, voltare pagina nella vita del Csm, che imponeva ai magistrati italiani di muoversi sul percorso indicato dallo stesso presidente - modifica dei comportamenti e rigore deontologico - rimane attuale».

Il consenso sociale all'azione della magistratura è forse al minimo storico dai tempi di Tangentopoli. Lei ha provato per tempo, da presidente nazionale di Anm e da procuratore di Milano, a mettere in guardia da chiusure corporative e autoreferenzialità. Crede che qualcosa sia sfuggito di mano, negli anni, e che il gioco delle correnti abbia finito per instillare nella magistratura alcuni dei meccanismi perversi che hanno sottratto ulteriore credibilità alla politica?
«Le clamorose vicende che hanno investito il Csm (più precisamente alcuni componenti ed alcuni esponenti di alcune correnti) indicano come le peggiori derive sono conseguenza di ambigui occulti rapporti tra notabili che si muovono del tutto trasversalmente rispetto a quello che dovrebbe essere l'aperto e trasparente confronto nelle sedi proprie. Il sistema elettorale in vigore, che si proponeva di scardinare il sistema delle correnti, ha ottenuto l'effetto opposto. Non si possono sopprimere le correnti finché hanno un radicamento; il sistema elettorale deve mirare a ridurre il peso degli apparati allargando le possibilità di scelta degli elettori che continuino a fare riferimento ad una o altra corrente. In tutti i paesi europei operano associazioni di magistrati, espressione di un diritto di libertà. In Francia, Spagna, Belgio e Germania, senza che ciò desti alcuno scandalo, sono attive diverse associazioni di magistrati. Nel nostro paese l'Associazione nazionale magistrati è in realtà una federazione di associazioni, le correnti. All'Anm è iscritta la quasi totalità dei magistrati e le elezioni interne vedono una partecipazione elevatissima. Pur a fronte di aspetti degenerativi, non si deve dimenticare che il pluralismo che si manifesta con le diverse correnti ha operato negli anni come controspinta alla chiusura della corporazione. Qualunque riforma del sistema elettorale del Csm deve misurarsi con principi fondamentali: la libertà di opinione e di associazione e il contributo che i corpi intermedi apportano alla vita di un ordinamento democratico, in tutte le sue articolazioni».

Se il populismo della politica è un problema, il populismo giudiziario può essere devastante, ammonisce in chiusura del suo libro. L'attualità sembra indicare una saldatura dei due temi, declinati in chiave giustizialista: cosa pensa della riforma Bonafede, con il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado?
«Con la riforma Orlando del 2017, che ha previsto una sospensione per un periodo definito dopo la sentenza di primo grado, si era fatto un passo avanti, sia pure incompleto, rispetto alla sgangherata legge ad personam ex-Cirielli, che sollecitava impugnazioni dilatorie. Senza attendere una sperimentazione si è passati al blocco totale dopo il primo grado; negli uffici giudiziari meno efficienti si può avere un processo oltre ogni limite di ragionevole durata. I rapporti del Gruppo di Stati contro la Corruzione avevano più volte invitato l'Italia ad adottare misure che evitassero la prescrizione nei processi per corruzione. La legge Bonafede ha il merito di aver raccolto l'invito, ma passando all'estremo opposto del pendolo».

Le statistiche sembrano convergere in due direzioni: primo, la gran parte delle prescrizioni opera nella fase delle indagini preliminari, e comunque entro la sentenza di primo grado; secondo, la prescrizione risente degli assetti organizzativi degli uffici, ponendo il problema a livello di management giudiziario, ferma restando la carenza di uomini e mezzi. È il caso di volgere lo sguardo altrove?
«Se si abbandonano le guerre di religione e il politichese di chi ci perde la faccia è possibile approvare in tempi brevi una riforma organica ed equilibrata, come da anni proposto da molti giuristi: un tempo per le indagini preliminari, un tempo per l'appello, un tempo per la Cassazione. Contestualmente, non vi è un prima e un dopo, si devono rafforzare le dotazioni umane, magistrati e, soprattutto, personale amministrativo: do atto che il ministro Bonafede, proseguendo nella via aperta dal suo predecessore Orlando, ha fatto molto. Occorrono, con un confronto propositivo tra magistrati e avvocati, incisivi interventi sul processo penale, eliminando formalità e nullità che non hanno a che fare con le garanzie di difesa e adottando un sistema di notifiche in linea con le innovazioni tecnologiche. Le statistiche indicano che, a parità di risorse, l'efficienza degli uffici giudiziari presenta inaccettabili disparità: molto vi è da fare anche per i magistrati e in particolare per i capi degli uffici».

Il sistema legislativo sembra rispondere in toni sempre più marcati a una sorta di deriva securitaria,  per cui i problemi sociali prima ancora di essere governati trovano un'immediata risposta in pulsioni repressive: si prevede una nuova fattispecie di reato o si inaspriscono le pene. L'idea di gettare la chiave della cella fa sempre presa, puntando alla pancia dell'elettorato. Ma è proprio a questo che serve il processo penale?
«È una grave mistificazione quella di un legislatore che faccia passare il messaggio che i problemi di sicurezza si risolvano, come una bacchetta magica, introducendo nuovi reati e inasprendo le pene. Così si creano solo ulteriori tensioni e inevitabili amare disillusioni. Il processo penale deve reggersi su un delicato equilibrio tra garanzie ed efficacia. Illuminanti al riguardo le pagine di un grande giurista, Glauco Giostra, nel suo libro appena uscito, Prima lezione sulla giustizia penale (Laterza, 2020). Un processo che non rispetti le garanzie di difesa e la dignità delle persone è, insieme, incivile e inefficiente. Gettare la chiave della cella è inumano e controproducente: inoppugnabili statistiche dimostrano che operare per il reinserimento nella società dei condannati non è buonismo. La percentuale di recidiva, di ricaduta nel reato, è di gran lunga inferiore per i condannati che hanno usufruito di misure alternative al carcere».

Articoli 24, 27 e 111 della Costituzione, branditi dagli avvocati a Milano. Le pongo tre dubbi: accusa e difesa non giocano alla pari; il processo non ha durata ragionevole (men che meno l'avrà con il blocco della prescrizione, e l'imputato presunto innocente potrà restare sulla graticola a vita); la pena non è finalizzata alla rieducazione del reo. Sono fondati? E tra tutti, qual è che più la inquieta come giurista?
«Difesa diritto inviolabile (art.24), presunzione di non colpevolezza e principio rieducativo della pena (art.27), giusto processo fondato sul contraddittorio e ragionevole durata (art.111) sono principi della Costituzione che i magistrati, non meno degli avvocati, devono avere come stella polare. Non giovano certo le gag cabarettistiche di qualche magistrato e neppure le forzature di una parte dell'avvocatura. Magistrati e avvocati, insieme, operano negli uffici ogni giorno perché quei principi costituzionali non stiano solo sulla carta. Su questa collaborazione occorre andare avanti rifuggendo, da ogni parte, da dannose contrapposizioni».

Oggi, nel convegno cui parteciperà in qualità di relatore, si discuterà di separazione di carriere tra magistratura giudicante e requirente, secondo la proposta di legge promossa dalle Camere penali: due Csm divisi per garantire, tra accusa e difesa, la terzietà del giudice e un pubblico ministero di fatto legato all'Esecutivo se l'azione penale è esercitata nei casi e secondo i modi previsti dalla legge. Un attacco al cuore del sistema o una sua modernizzazione?
«La proposta di legge costituzionale n.4 introduce una drastica separazione delle carriere tra giudici e pm, con due separati Csm. Sono note le obiezioni a questa proposta e non le ripeto. Ma questa proposta, non si sa quanto consapevolmente vista la estrema sinteticità della relazione, va molto oltre con il rischio di un effetto devastante su principi fondamentali del sistema giudiziario voluto dalla Costituzione. Mi riferisco alla reintroduzione della gerarchia non solo per i Pm, ma anche per i giudici, alla possibilità di ampio accesso alla magistratura senza concorso e a una sbrigativa modifica dell'art. 112 della Costituzione sulla obbligatorietà dell'azione penale, il tutto nel quadro di un preteso riequilibrio nel rapporto tra il giudiziario e i poteri legislativo ed esecutivo».

 
© RIPRODUZIONE RISERVATA