Allarme Istat: «Per i giovani del Sud il tempo si è fermato». Ecco perché

A trent’anni chi ha un lavoro è precario, vive in famiglia e non fa progetti sui figli

Allarme Istat: «Per i giovani del Sud il tempo si è fermato». Ecco perché
di Marco ESPOSITO
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Venerdì 13 Ottobre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 07:03

Per i giovani del Sud «il tempo rischia di fermarsi». Stanco di elencare cifre drammatiche sul Mezzogiorno, puntualmente ignorate, l’Istituto di statistica prova con un’immagine forte a riassumere la difficile e allo stesso tempo assurda condizione di chi è giovane nel Mezzogiorno. Da un lato è “merce rara” e quindi risorsa preziosa. Nello stesso tempo è lasciato a un destino di marginalità che gli inibisce di diventare adulto e di dare un pieno contributo alla società tutta, «non solo di quella meridionale», come sottolinea l’Istat consapevole della palpebra pesante che accompagna ogni analisi sul Sud. 

I numeri


I numeri, ovviamente, non mancano. Il focus dell’Istat dal titolo “I giovani del Mezzogiorno: l’incerta transizione all’età adulta” snocciola dati demografici e sociali su un territorio che ha gli indicatori peggiori fra tutte le regioni europee su disoccupazione, partecipazione al lavoro, divario di genere, giovani che non studiano e non lavorano e sul tasso dei laureati. Ma i numeri non sono semplicemente raccolti in grafici e tabelle, sono lì a supporto di un messaggio, in linguaggio tecnico, che l’Istat affida ai decisori politici: «La traslazione dei tempi di formazione di un proprio nucleo affettivo e della prima procreazione rischia di interferire con il ciclo biologico della fertilità e di alimentare il cosiddetto “inverno demografico”». Tradotto: se si abbandonano i giovani del Sud a un destino precario, resteranno tra le mura dei genitori fino a un’età in cui sarà difficile anche avere un figlio, aggravando il già noto collasso demografico in cui è precipitata l’Italia.

I giovani


Per “giovani”, l’Istat considera chi ha tra i 18 e i 34 anni. L’anno d’oro dal punto di vista numerico fu il 1994, quando i giovani dell’epoca erano 15 milioni. Oggi sono 10 milioni, con la quota dei residenti al Sud ancora significativa sebbene in calo: era il 38,5% nel 2002; è diventata il 36% vent’anni dopo. In media i giovani italiani sono appena il 17,5% della popolazione, valore più basso d’Europa, con la Campania che mantiene per un soffio la migliore posizione d’Italia, al 19,9%. In Europa cinque giovani su dieci hanno lasciato la famiglia d’origine, nel Nord Italia solo tre e nel Mezzogiorno appena due su dieci. Rispetto a vent’anni fa i valori sono peggiorati in tutta Italia ma nel Mezzogiorno in misura più intensa. Chi resta in casa con i genitori, ovviamente, rinvia una convivenza e, di conseguenza, la scelta di fare figli. All’età critica di 33 anni, nel Mezzogiorno ancora il 41,5% vive con i genitori, il doppio rispetto al Centronord ma anche il doppio rispetto a chi nel Mezzogiorno aveva 33 anni vent’anni fa. Vent’anni fa il 55% dei 34enni aveva già procreato, adesso appena il 40%. Per le giovani donne si è persa nel Mezzogiorno, nota l’Istat, «la tradizionale precocità al compimento di tutte le transizioni familiari, compresa la nuzialità e la procreazione». 
Perché i giovani meridionali non riescono a staccarsi dalla famiglia? Le difficoltà nel trovare lavoro nel Mezzogiorno ci sono sempre state; tuttavia la situazione da nera è diventata, se possibile, più nera. Gli effetti della grande crisi partita nel 2008 nel Mezzogiorno non sono stati ancora assorbiti e si registra «l’incremento dei lavori atipici o non standard e di tutte le varie forma di precariato indotte - evidenzia l’Istat - dalle trasformazioni strutturali del mercato del lavoro e dall’andamento del ciclo economico». Il tasso di occupazione tra i giovani meridionali è tragicamente basso con appena il 31,7 per le donne (contro il 59,3% per le coetanee del Centronord).

E tra i giovani meridionali occupati, che sono quindi una minoranza, la quota di lavoro atipico è «ormai del tutto prevalente» con valori oltre il 60% in Calabria, Sardegna, Basilicata e Sicilia. In Calabria appena un giovane su dieci ha un’attività a tempo indeterminato.


In tale scenario cupo c’è però un fattore nel Mezzogiorno che segna una svolta rispetto ai periodi precedenti ed è l’impegno dei giovani a migliorarsi portando a termine il percorso formativo: «Nel Mezzogiorno la quota di bassa istruzione appare in visibile decremento» e rappresenta il 24,4% mentre era il 41,5% fra i giovani della generazione precedente. L’istruzione terziaria è migliorata in modo spettacolare tra le donne meridionali passando in vent’anni (2001-2021) dall’8,4% al 24,4% con il Centronord quasi raggiunto visto che è al 29,4%. Nel 2021 c’è stato anche uno storico sorpasso che «potrebbe assumere un rilievo storico» perché le immatricolazioni universitarie dei meridionali hanno superato, in termini percentuali, quelle dei coetanei del Centronord. In quattro regioni - Abruzzo, Molise, Calabria e Basilicata - ogni 100 diciannovenni 60 si iscrivono all’università. Non era mai successo in passato e non accade ovunque al Nord: in Lombardia sono 50 su 100. 
Certo, osserva l’Istituto di statistica, nella scelta della maggioranza dei giovani meridionali di iscriversi all’università incide anche la carenza di alternative lavorative. Tale osservazione però non attenua il fatto che investire sulla propria formazione sia un comportamento altamente positivo. Ma proprio l’iscrizione all’università è anche il primo step di un destino fatto di migrazione. Il 28,5% delle matricole universitarie meridionali si iscrive in atenei fuori del Mezzogiorno, contro appena il 3,6% di chi dal Nord si sposta nel Centrosud. E al momento della laurea, ben il 39,8% (quattro su dieci) si è trasferito altrove. 
Il Sud insomma sta reagendo alla crisi scommettendo sulla formazione, ma i suoi giovani più qualificati finiscono con il rafforzare i territori già economicamente più forti. Ecco perché, richiama l’Istat, programmi come il Pnrr dovrebbero incidere sui divari territoriali. Se il Next Generation Eu dovesse fallire, avverte l’Istat, si rischia non il declino ma la «tenuta demografica per ampie aree del Mezzogiorno».

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