“Io capitano” in corsa per gli Oscar/ Lo sguardo straniero per la nostra identità

Una scena del film "Io capitano"
Una scena del film "Io capitano"
di Oscar IARUSSI
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Domenica 10 Marzo 2024, 10:47 - Ultimo aggiornamento: 11:20

L’Italia torna sul palco degli Oscar a Los Angeles dieci anni dopo il premio che consacrò La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Nella notte tra oggi e domani, in diretta dalle 23,30 su Raiuno, Io capitano di Matteo Garrone sarà in lizza per il miglior film internazionale con avversari quali Wim Wenders (Perfect Days) e Jonathan Glazer (La zona d’interesse). Dal 2014 solo un’altra volta siamo entrati nella cinquina dei finalisti, due anni fa, con È stata la mano di Dio dello stesso Sorrentino. Forte del Leone d’argento vinto all’ultima Mostra di Venezia, Io capitano ha trovato il suo pubblico anche in virtù d’una sapiente strategia distributiva del barese Luigi Lonigro, direttore di 01 Distribution, fatta di copie cresciute progressivamente nelle sale, di dibattiti nelle scuole e di incontri con l’autore e con i giovani attori Seydou Sarr (premio Mastroianni a Venezia) e Moustapha Fall, che sullo schermo si chiama «Moussa».

Il film affronta un tema considerato «difficile»: le migrazioni nel mondo globale. Garrone racconta la storia o, se volete, la favola di due cugini senegalesi, 16 e 17 anni, appassionati di calcio e di musica come tanti coetanei di ogni dove, che intraprendono un pericoloso viaggio da Dakar verso l’Italia, attraversando il Mali e il Niger, fino alla Libia dove vengono reclusi e torturati. Ma i due ragazzi riescono a tornare liberi e a imbarcarsi su un vecchio peschereccio fornito da un trafficante per raggiungere le coste siciliane, ovvero l’Europa che pure non vede l’ora di respingerli... Nella chiave del realismo fantastico propria dell’ultimo Garrone (Reality, Il racconto dei racconti, Pinocchio), in Io capitano vi sono momenti di rara commozione, per esempio l’immagine onirica del protagonista che prende per mano e fa volare come un aquilone il corpo di una donna appena stroncata dalle fatiche della traversata nel deserto. Per non parlare della potente sequenza finale che vede Seydou al timone della bagnarola stracarica di disperati, condotti tutti in salvo. Sì, è lui il capitano improvvisato, generoso e strabiliante di un’Odissea contemporanea dal Sahara al Mediterraneo, e sugli schermi da Venezia a Hollywood dove sarebbe giusto che vincesse l’Oscar. Lo speriamo per l’orgoglio tricolore e per le qualità del film, nonché per il valore simbolico dell’opera che riguarda sia loro, clandestini esuli naufraghi di un mondo in fuga dalla miseria o dalle guerre, sia noi, spettatori sempre più indifferenti rispetto a tragedie come la strage di Steccato di Cutro in Calabria, di cui abbiamo da poco ricordato il primo anniversario.

«Vedo le luci, vedo la terra! Il capitano ci ha detto che tra un’ora arriveremo in Italia». Sul sito di Medici senza Frontiere sono riportate le ultime parole che la sedicenne afgana Maida scrisse alla famiglia nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023. Era scappata da Kabul perché voleva studiare e diventare avvocato, un’aspirazione di normalità inibita alle donne dal regime dei talebani. Maida è una delle 94 vittime accertate di Cutro (35 minori) tra le 180 persone a bordo della barcarola partita dalla Turchia che, dopo quattro giorni di navigazione, affondò a centocinquanta metri dalla riva senza che qualcuno la soccorresse. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 2 marzo 2023 rese omaggio alle bare allineate nel palazzetto dello sport interpretando il dolore diffuso che però tende a stemperarsi nell’oblio, come più volte ha ammonito Papa Francesco. E pochi giorni fa Mattarella ha insignito del titolo di Commendatore della Repubblica la calabrese Nicolina Parisi, 82 anni, che offrì la tomba di famiglia per ospitare le salme dei migranti morti nel naufragio.

Più di un’indagine ha rilevato che a sentirsi coinvolti da tali eventi sono soprattutto i cittadini del Sud e delle Isole, memori della nostra emigrazione alla volta delle Americhe o nel dopoguerra verso la Germania, la Svizzera e il Nord Italia. Ma il punto di solito ignorato nel dibattito pubblico è l’opportunità che l’arrivo dei migranti può riservare ai territori interessati. Non parliamo qui solo di lavoro, ovvero di energie giovani in un’Italia sterile e sempre più invecchiata, bensì nei termini simbolici, dicevamo, che talora danno il “la” a un ricominciamento. La Puglia oggi non sarebbe la stessa senza la «Vlora» che l’8 agosto 1991 approdò nel porto di Bari con i suoi ventimila albanesi in cerca di libertà. Quello sbarco ha mutato il nostro profilo nel segno dell’ospitalità, nonostante le contraddizioni e le polemiche di cui pagò il fio il sindaco Enrico Dalfino, coraggioso nell’opporsi al presidente Cossiga quando gli dette del «cretino». Disse Dalfino: «Sono persone, persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro unica speranza».

Il prevalere del sentimento di accoglienza preannunciò un Sud «altro», lungi dal piagnisteo, protagonista anche grazie alle analisi e alla prassi di don Tonino Bello, Franco Cassano, Guglielmo Minervini, Alessandro Leogrande... Ne è conseguita una stagione nuova dell’economia pugliese (in primis il turismo), più brillante rispetto alle altre regioni meridionali. Del resto, l’identità italiana si definisce nello sguardo dello straniero fin dall’Eneide di Virgilio allorché è evocata la meta dei Troiani naufragati nel canale di Sicilia e accolti a Cartagine dalla regina Didone: «V’è un luogo - con il nome di Esperia lo chiamano i Greci - … Qui facevamo rotta». Esperia vuol dire terra d’occidente ed è l’antico nome dell’Italia. La rotta di Enea è la stessa di Seydou.