L'intervista/Blasi: la Taranta in Rai?
Fermi tutti, non è un format

L'intervista/Blasi: la Taranta in Rai? Fermi tutti, non è un format
di Alessandra LUPO
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Domenica 1 Settembre 2013, 18:04 - Ultimo aggiornamento: 16 Settembre, 18:22
LECCE - Della Notte della Taranta ha sempre preferito dirsi madre piuttosto che padre, scherzando sul fatto che mater semper certa est. Oggi però di quella creatura ormai adolescente, Sergio Blasi assume il ruolo di guida e consiglio, che non esita a mettere in guardia dai pericoli di perdere il valore di ciò è stato costruito. Non solo: si dice anche disposto a farsi da parte «per dare spazio a una nuova generazione».

Il modello Taranta regge e diventa ogni anno un evento mediaticamente più atteso. Lei cosa ne pensa?

«Intanto non viene mai ricordata la cosa più importante: il concertone de La Notte della Taranta è una delle poche produzioni originali d’Italia e anche d’Europa, non è un format prefabbricato e la sua forza è proprio questa».

Un evento per sua natura impossibile da replicare.

«Il maestro concertatore che viene scelto deve entrare nelle pieghe di questa terra. Come per un lungo workshop, deve sposare il territorio. Sollima lo ha fatto, è venuto a maggio, ha studiato tutti i brani. Non sono cose che si improvvisano».

Nemmeno dal punto di vista economico, crede che i fondi siano sufficienti?

«Questa produzione ha bisogno di risorse importanti, è inutile negarlo, ed è necessario che si immaginino tali risorse».

Crede che gli enti che oggi la sostengono, come la Regione, debbano contribuire maggiormente?

«Sì, se è vero che apprezzano questo festival, devono preoccuparsi di cercarle, sottolineandone non solo la valenza artistica, ma anche il valore socio-culturale. Ernesto De Martino diceva che “l’identità è il villaggio della memoria per essere cosmopoliti”. La forza del festival è proprio questa. Valorizzare la tradizione orale del territorio per abitare la globalizzazione».

Un percorso che oggi tanti riconoscono.

«Sono passati 15 anni: era il 24 agosto del ’98, quando iniziammo a Melpignano, provando a immaginare il Salento nel mondo attraverso il sapere del popolo, che appartiene a tutti ma è di nessuno e non può diventare un bottino privato».

Qual è il suo giudizio sullo spettacolo di questa edizione?

«Sollima ha fatto un ottimo lavoro ma noi dobbiamo rigenerare il festival, perché non si limiti solo al concertone. Quello della Taranta è un festival che dura 15 giorni, ed è giusto rafforzare questo percorso di avvicinamento, facendo in modo che la gente possa programmare l’estate anche sull’offerta delle tappe intermedie».

Il presidente della Fondazione, Massimo Manera, ha anticipato di avere avuto qualche contatto con la Rai. Cosa ne pensa?

«Non credo che il festival possa diventare un format televisivo. A prescindere dalla rete. Quest’anno, ad esempio, ci sono state troppe interruzioni della diretta. Non è pensabile interrompere la sacralità di ciò che accade su quel palco, perché quello che accade lì non è un concerto: è la festa del territorio che si mette il vestito buono e va ad incontrare il resto del mondo. Non accade altrove di vedere il nonno di 70 anni suonare il tamburello con la nipote di sette».

Meglio il modello ipotizzato da Arbore, di un canale musicale che mandi in onda ciò che accade?

«Sì, qualsiasi trasmissione dell’evento deve rispettare la sua formula, che è parte integrante dello spettacolo. Non dobbiamo porci al cospetto degli altri con il cappello in mano. La forte dignità musicale della pizzica ci ha permesso di rapportarci sempre alla pari con i grandi ospiti così come con l’universo culturale. Una lezione da tenere presente anche passando dalla musica al cibo, come è accaduto quest’anno con Eataly».

Ha avuto un’impressione di subalternità al grande marchio?

«Dico solo che dobbiamo guardarci dal rischio di banalizzare la Notte della Taranta».

Lei ha parlato di rischio “smailizzazione” del Salento.

«Certo, non dobbiamo scimmiottare modelli mordi-consuma e fuggi che non ci appartengono. In Salento si può venire tutto l’anno, perché si sta bene, si trovano i prodotti di qualità non a chilometro ma quasi a metro zero. Se penso all’intervista di Umberto Smaila che parla di questa terra, mi pare ci venga chiesto di vendere all’incanto la nostra bellezza».

Quest’anno per la prima volta non era seduto al tavolo della conferenza finale, vuole separare il suo ruolo nel Pd regionale dal festival?

«Ho sempre creduto di dover giocare la nostra identità senza tradire la nostra terra e uno che ha altre responsabilità non deve correre il rischio che si faccia confusione. E bisogna anche saper innovare il proprio apporto».

In che modo?

«Ho visto che tra le linee programmatiche del ministro Bray la valorizzazione delle culture popolari: io vorrei che facessimo del Salento, attraverso la Fondazione, un luogo in cui le culture popolari in Italia e nel Mediterraneo trovino casa. Ma per farlo ci vuole studio, immaginazione e impegno. A volte bisogna saper fare anche un passo indietro».

Sta pensando di lasciare la Fondazione?

«Sto pensando che occorre dare spazio a una nuova generazione: discuterò con il presidente se non è il caso che chi ha avviato questa esperienza ora faccia posto a uomini di cultura e di buona volontà in arrivo da questo territorio».

Crede che la Taranta possa fare a meno dei suoi padri?

«I padri sono orgogliosi quando i figli crescono, ma come per tutte le cose bisogna avere il coraggio di innovare e di osare. Lo dico senza alcuna polemica. Per fare questo bisogna mettere l’orecchio a terra e capire cosa sta arrivando. Bisogna avere il coraggio di immaginare il futuro».



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