L'intervista/Albino: «Al Nord mercati saturi: è il momento di accelerare»

L'intervista/Albino: «Al Nord mercati saturi: è il momento di accelerare»
di Enrico FILOTICO
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Mercoledì 2 Marzo 2022, 10:55 - Ultimo aggiornamento: 10:59

Il tema dello sviluppo del comparto digitale sul territorio è ormai centrale, le richieste di lavoro per professionisti di settore e il ral in aggiornamento continuo sono gli ultimi indicatori che dettano la strada da seguire. Per capire il ruolo delle istituzioni universitarie è stato necessario interpellare Vito Albino, professore ordinario di Ingegneria economico-gestionale presso il Politecnico di Bari. È fondatore e responsabile scientifico del Laboratorio di Knowledge Management dell'Ateneo all'interno del quale dal 2003 al 2009 è stato Direttore del Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Gestionale. Oggi Albino è presidente dell'Arti, l'Agenzia Regionale per la Tecnologia e l'Innovazione della Regione Puglia.
Professore, da dove si parte per capire il rapporto con il mondo del digitale?
«Io farei un ragionamento su due piani distinti. Il primo è ovviamente lo sviluppo di applicazioni, quindi parliamo di applicazioni Ict più che di tecnologie in senso stretto. Anche perché molte di queste tecnologie vengono sviluppate nel mondo. Noi poi applichiamo costruendo sistemi».
È un tema verso cui c'è sensibilità nei nostri atenei?
«Questo mondo qui è il mondo dell'informatica, noi abbiamo tutto il sistema dell'ingegneria dell'informazione molto attivo in tutte le università pugliesi. E nel politecnico è presente e ben radicata».


Il secondo piano di cui parlava?
«Il secondo piano sono i contesti in cui queste tecnologie vengono applicate. Faccio un esempio: se noi pensiamo alla progettazione e alla gestione di cantieri per opere civili è evidente che ci sono tante applicazioni tipo software e dispositivi che rientrano negli strumenti che in quegli ambiti si hanno a disposizione. Lo stesso vale per il mondo manifatturiero e per il mondo dei servizi».
È lì che gli atenei intervengono?
«Se rimaniamo nell'ambito formativo, c'è tutto l'interesse di formare delle figure e nuovi profili professionali che siano nient'altro che i vecchi profili con le competenze per poter convivere con le nuove conoscenze. Non è la conoscenza di come funziona lo strumento, quanto quella di sapere come utilizzarli nelle differenti applicazioni. I corsi tradizionali stanno incorporando le nuove conoscenze e quindi preparando nuove figure che avranno ancora i vecchi nomi».
Professore, spieghi questo passaggio.
«È semplice, l'ingegnere civile rimane tale. Quello che cambia sono le sue competenze, magari avrà imparato ad usare nuovi strumenti. Avrà la capacità di fare la progettazione attraverso software più evoluti del semplice cad che offre un calcolo strutturale. Questi tipi di sviluppi servono anche per la manutenzione. Sono queste le due grandi trasformazioni di cui posso dar conto e su cui noi stiamo fortemente lavorando. Naturalmente non è l'unico aspetto decisamente rilevante».
Cos'altro evidenzierebbe?
«Se pensiamo alla formazione per chi entrerà nelle imprese, le aziende da un lato utilizzeranno nuove tecnologie ma il vero tema è la trasformazione delle imprese».
In che senso?
«Bisognerà vede come cambieranno i modelli di business. Per esempio, varrà la pena capire come muterà il rapporto con i clienti o vedere come si interverrà sulle supply chain. E lì ovviamente si apre il grande tema della trasformazione aziendale».
Lei che idea si è fatto?
«La business trasformation è una cosa diversa dalla digital trasformation. La seconda abilita la prima».
Il rapporto del suo Ateneo con le nuove realtà pronte ad insediarsi in terra di Bari è sembrato determinante. A cosa si deve questo forte interesse?
«Sicuramente la ragione è lo shortage di profili professionali, ovvero si riscontra una carenza di alcuni specifici lavoratori nell'ambito steam. In particolare, in quello ingegneristico. È un problema nazionale. Quindi spesso questi gruppi tendono a muoversi dove vedono che ci sono degli atenei che producono questi profili professionali, vanno dove ci sono contesti formativi che sono pertinenti rispetto alle esigenze del mercato. Questo spiega l'attivismo».
È per questo che la Puglia è diventata così di moda?
«Direi di sì. Certi mercati sono saturi, si pensi a Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna, Veneto e Lazio. Quindi c'è una tendenza a gravitare dove c'è meno industrializzazione. Da noi c'è minore tensione sul mercato del lavoro perché ovviamente l'arrivo di questi gruppi squilibra domanda e offerta di figure professionali».
Se dovesse guardare al futuro, qual è il prossimo passaggio?
«Se si guarda il Desi, che è l'indicatore di sviluppo del digitale, si vede che l'Italia è in ritardo e anche la Puglia ha delle debolezze. Voglio essere chiaro, tutti hanno indicatori che stanno messi un po' meglio di altri. Quello che deve avvenire è una trasformazione delle imprese che deve essere accompagnata da digitalizzazione e riorganizzazione delle imprese. Questo è il grande tema. Solo così si possono generare incrementi di produttività e quindi incrementi di competitività. Noi dobbiamo adottare tecnologie, non svilupparle».
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