C'era una volta il lupo cattivo... Creatura splendida e selvaggia, non facciamogli del male

C'era una volta il lupo cattivo... Creatura splendida e selvaggia, non facciamogli del male
di Pier Luigi PORTALURI
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Venerdì 28 Luglio 2023, 16:47 - Ultimo aggiornamento: 16:54

Ci sono strade, la sera, che percorro molto piano. Forse troppo piano. Perché in fondo mi sento un intruso. Sto attraversando casa loro. E perché ho paura di far loro del male investendoli con la macchina. Ma sopra tutto perché spero di incontrarli. I lupi. Non sono un esperto. Solo appassionato. Ho letto qualcosa. Per esempio, un libro di Carl Safina, Al di là delle parole. Ma mi sono fermato quando ho capito che la vita di un lupo era stata stravolta dall’uccisione della compagna (per mano umana, credo): sono creature (non diciamo “animali”, per favore) monogame. E poi Mark Rowlands, Il lupo e il filosofo.
Ho però colleghi universitari che non solo li amano. Li studiano. Li proteggono con una divulgazione corretta. Per cui accettano di perder tempo rispondendo alle mie domande. 

Il concetto di paura

È vero che sono loro ad aver paura di noi? Sì. Li abbiamo sterminati sin quasi all’eradicazione. Hanno quindi sviluppato un istinto di terrore per l’uomo: l’uomo – non il lupo – cattivo. In tempi non lontani lo Stato premiava coloro che li cacciavano: i lupari, appunto. Poi abbiamo finalmente cominciato a proteggerli. Siamo negli anni ’70 del secolo scorso. Due misure di tutela: il decreto ministeriale “Natali” del 1971 depennò il lupo dall’elenco degli animali “nocivi”, ne proibì la caccia e punì l’uso di bocconi avvelenati; seguì il decreto ministeriale “Marcora” del 1976, grazie al quale queste creature meravigliose divennero più protette.
Storia interessante, perché dimostra che la sensibilità e dunque i “valori” di una società – nel tecnoletto politico-giuridichese sono definiti interessi pubblici – possono variare andando di colpo da un estremo (qui, sbagliato: ti pago se lo uccidi) all’altro (giustissimo: giù le mani dal lupo).
Ancora. È giusto dar – o lasciar – loro da mangiare? Pare proprio di no. Non bisogna farlo. Anzi, pare che sia dannatamente pericoloso. Ma per loro, non per noi. Se li sfamiamo, li induciamo a commettere l’errore mortale (sempre per loro): fidarsi di quegli esseri spregevoli che non di rado siamo. Perché prima o poi arriva il gran prode col fucile. O col veleno. Maledetti.
La notte – mi spiegano – non si devono mai lasciare creature domestiche incustodite (cani, etc.) in spazi aperti. Il lupo fa il lupo. Cioè fa il predatore, come i colleghi orsi e linci (sempre se riusciremo a reintrodurre stabilmente in Italia questo elegantissimo felino col ciuffetto sulla punta delle orecchie): uccide per vivere, non per sport, cosa che pare essere appannaggio solo di alcuni “umani”.
E se ne incontriamo uno, magari ferito sul ciglio di una strada? Avvisiamo subito un centro specializzato o le forze dell’ordine per il soccorso.

Senza cedere a una dolce tentazione: familiarizzare con lui. Non è un cane. Ammesso di farcela, lo allontaneremmo per sempre dal suo branco, lo deruberemmo della sua essenza selvaggia. Mai sognarsi nelle sere invernali sul divano con lui davanti alla tv, magari a vedere Telelupo.

La natura selvaggia

Non è né buono né cattivo, il lupo. È una creatura, appunto, “selvaggia”: appartiene alla selva, alla natura “non antropizzata”, come oggi si usa ipocritamente dire: in soldoni, non ancora devastata dall’egoismo sopraffattore, eternamente nazista, che caratterizza il dominio incontrollato dell’Antropocene. E lì dobbiamo fare in modo che resti. Lasciato in pace. 
E ben tutelato. Insieme con gli amici (colleghi di Unisalento) Luigi Melica e Massimo Monteduro nel maggio scorso abbiamo infatti siglato un accordo col Dipartimento di Ecologia dell’Università svedese di Uppsala – capofila del progetto internazionale “Courts & Conservation” – per censire la legislazione vigente e analizzare le controversie innanzi al Consiglio di Stato e alle altre Corti in materia di grandi carnivori.
Divago un po’. Due anni fa, a Trento, si è fatto un bel convegno il cui titolo suonava strano. Pareva una contraddizione in termini, un ossimoro: “Istituzioni selvagge”. Le conclusioni sono state affidate a Roberto Bin, intellettuale e costituzionalista tra i migliori.
Sua una riflessione lancinante. Cos’è e dov’è oggi la selva oscura, con le sue creature che ci fanno paura, dove cioè l’oscurità significa ancora ignoto, dunque pericolo? Quella da cui uscire per salvarsi tornando nella luce, davanti al consolante – dice l’allegoria del Poeta – «tremolar della marina»?
La selva non è più quella di Dante. Quella era la sylva sì minacciosa, ma ancora completamente naturale, non creata artificialmente dall’uomo. Sono invece ben altre – dice Bin – le selve in cui non vorremmo mettere piede, per il pericolo di perderci e per gli orchi che le popolano. Sono le “selve urbane”, le zone di degrado, le aree industriali dismesse e inquinate. «Sono gli scarti dello sfruttamento economico del territorio. Risorse munte sino all’estremo e poi lasciate a sé stesse, perché hanno perso il loro appeal economico».
A ciò che resta di realmente naturale l’uomo deve restare estraneo. O al più avvicinarsi in suprema levità. Comprendendone il senso. Come nel racconto di Primo Levi, I costruttori di ponti. Lì, un essere gigantesco e delicato vive nel più completo rispetto del creato: «Danuta era contenta di essere stata fatta come i cervi e i daini. Le spiaceva un poco per l’erba, i fiori e le foglie che era costretta a mangiare, ma era felice di poter vivere senza spegnere altre vite, come invece è sorte delle linci e dei lupi. Aveva cura di visitare ogni giorno un luogo diverso, in modo che il verde nuovo cancellasse presto i vuoti; nel camminare, evitava di calpestare gli arbusti di salice, di nocciolo e di ontano, e girava al largo degli alberi d’alto fusto per non ferirli».
La sylva e il lupo, insomma, sono categorie dello spirito. L’uomo deve solo inoltrarvisi in punta di piedi; tagliando forse qualche albero, diradando forse qualche ramo. 
Ma s’incendia e si distrugge, invece. Senza nessun ethos della limitazione; senza un’etica profonda della rinuncia che prevalga sul suo opposto: la metafisica occidentale, il violento dominio tecnico dell’io sul mondo.
 

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