Caccia all'untore, il tribalismo versione digitale

Caccia all'untore, il tribalismo versione digitale
di Rosario TORNESELLO
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Mercoledì 4 Marzo 2020, 10:08 - Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 03:06
Fermiamoci un istante. Noi che possiamo ancora rallentare per riflettere, facciamolo. Anche per rispetto a chi da giorni non ha un attimo di tregua per tirare il fiato; e su tutti, scienziati, medici, ricercatori e personale sanitario in genere, almeno per loro. E per i pazienti, per chi vive sulla propria pelle l’emergenza del momento; un attimo. Se è la paura il motore primo, rischiamo il caos, la paralisi, il blocco totale. La fine della socialità prima e della società poi. Se i meccanismi di risposta agli allarmi e alle emergenze, o comunque ai rischi e ai pericoli, producono gli assalti ai supermarket e alle farmacie, ne usciamo con le ossa rotte. Ancor peggio se la reazione è la caccia al capro espiatorio, il dagli all’untore, il massacro via social che corre di cellulare in cellulare, rimbalza via audio e dilaga nella notte per additare l’ultimo paziente positivo al coronavirus, esporlo a pubblica infamia e aizzare la folla perché lo conduca al patibolo, con corredo di nome, cognome e foto a scanso di equivoci, non si sa mai l’errore a volte. La ferocia, quand’è spietata, ha precisione chirurgica. Fermiamoci un istante. È questa la strada?

Il virus sbarca in Salento. Anticorpi sociali, pochi anche quelli. Dalla conferma al caos in una manciata di secondi. Il linciaggio si scatena subito, i giudizi sono implacabili. Qui il Paziente Uno è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, prima ancora che ciascuno possa informarsi bene, sapere a fondo. Conoscere. Un meccanismo tribale. Possibile? “Il nostro Paese - ha scritto sul Messaggero Carlo Nordio - corre un rischio anche più insidioso, oltre al pericolo di una seria epidemia e di un’altrettanto grave crisi economica: quello di attribuire a tutti i costi a qualcuno la responsabilità di quanto sta accadendo. È un fenomeno abbastanza universale, che nella storia si è manifestato con la caccia alle streghe e agli untori. Ma le superstizioni non muoiono, semplicemente mutano”. Come i virus, verrebbe da aggiungere. Come l’ignoranza, che però non conosce vaccino. Come la violenza, che non ha limiti di estensione né di forma: se non è fisica, è verbale, psicologica, emotiva. Comunque, sempre violenza.

La paura è un sentimento nobile e importante per essere sprecato in malo modo. Capta il pericolo, intuisce il rischio, lancia l’allarme, chiama a raccolta, indica il problema. Ma non governa la soluzione, non traccia vie d’uscita, non elabora tattiche, tanto meno strategie. Quello è compito dell’anima raziocinante. Fare incetta di amuchina a quale input dello spirito obbedisce? E dare l’assalto alle mascherine? E chiudere le scuole senza un piano di coordinamento, per cui Nardò sì, Gallipoli di più, ma Lecce no e Maglie chissà? Riflessi locali di uno sconquasso nazionale, nel tiremmolla tra governo e regioni. La civiltà che pensava di prevedere tutto, e tutto controllare, ridotta in panne, in crisi profonda per colpa di un’infezione. Rimettersi in discussione è il primo passo, considerate le proporzioni. Il secondo è assegnarsi delle priorità: l’obiettivo è rallentare la corsa del virus, rapido ma non tra i più veloci, letale ma non tra i più mortali; tenere al riparo anziani e ammalati; evitare il collasso del sistema sanitario, che in tutt’Italia conta “appena” 5.300 posti in terapia intensiva, destinati tuttavia a una molteplicità di patologie e accidenti. E sperare che un rimedio arrivi quanto prima. L’altro giorno Vito Mancuso, su Repubblica, ricordava come Phobos, dio della paura, abbia in fondo un fascino irresistibile perché figlio di Ares, dio della guerra, e di Afrodite, dea della bellezza. Ma a scartabellare nell’ufficio anagrafe dell’Olimpo si scopre anche l’esistenza di una sorella, Armonia. Andrebbe riscoperta e rivalutata. Anche perché sposa di Cadmo, fratello di Europa, spesso misconosciuta e adesso - però - letteralmente scomparsa, come altre volte per diverse e gravi emergenze.

Sarebbe quasi il caso di riformulare il decalogo ministeriale, anche perché il momento, a dispetto del riferimento evocativo, durerà a lungo, per cui occorre attrezzarsi di calma e pazienza. Lavarsi bene le mani, ma la bocca un po’ di più. Tenersi a due metri di distanza dal prossimo e a dieci dal cellulare. Evitare di espettorare, ma anche di esternare fragorosamente in pubblico, usando l’incavo del braccio per l’una e l’altra cosa. Non toccarsi occhi, naso e bocca, ma aprire bene le orecchie e il cuore. Niente strette di mano, e labbra serrate se ne siete capaci. Non temere i pacchi in arrivo, ma rifuggire dalle bufale in circolazione. Non prendere farmaci antivirali o antibiotici, se non prescritti dal medico, né bere tutto quello che viene propinato (se non da fonte autorevole). Pulire le superfici con disinfettanti a base di cloro o alcol e ripulire bene la memoria del telefonino: contiene tracce evidenti di odio virale. Infine, non usare la mascherina, a meno di non essere malato o a contatto con malati e di non aver fatto, detto o pensato qualcosa di cui vergognarsi, partecipando al grande spettacolo dell’inciviltà. Nel qual caso, in verità, le maschere da indossare sarebbero altre.

Avremmo molto da imparare, da questo triste (e a tratti tristo) momento. Ma il genere umano ha scarsa memoria, e apprendere dai propri errori non è stato mai il suo forte. Né dalle lezioni della storia o da quelle portate in dote dalla letteratura. Forse perché non lette, magari perché non assimilate. Semplicemente, chissà, solo perché non capite. Quante analogie, quasi sorprendenti nel caso registrato in Salento, con la “colonna infame”. Ma di quel tempo nefasto rimbalzano le parole che compongono un altro capolavoro di Manzoni, le stesse rispolverate da Massimo Gramellini sul Corriere della Sera: “Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire”. E così siamo rimasti, a quattrocento anni dalla peste, a duecento dai Promessi Sposi. Tutti un po’ da compatire. 


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