Ex Ilva, scontro con Mittal. Si cerca una nuova strategia

Una veduta dell'ex Ilva
Una veduta dell'ex Ilva
di Domenico PALMIOTTI
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Venerdì 8 Dicembre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 09:12

Due settimane per rispondere a Mittal, alle contestazioni e alle lamentele che ha mosso al socio pubblico Invitalia e al Governo attraverso una memoria presentata nell’assemblea dei soci di Acciaierie d’Italia dell’altro giorno. Ma anche due settimane per cercare di mettere in campo una strategia che eviti che l’ex Ilva di Taranto affondi dopo che il socio privato Mittal ha detto chiaro e tondo che soldi non ne vuole mettere perché ritiene di essere in credito, in quanto è il partner pubblico, e cioè il Governo, lo Stato, ad essere inadempiente. 

Le risposte necessarie


Si fa dunque sempre più stringente la crisi dell’azienda e reclama risposte che non possono più essere ritardate, anche perché tra poco finirà l’anno e i numeri della produzione (3 milioni di tonnellate o forse anche meno) confermeranno come siano stati altri 365 giorni sprecati. Di rilancio mancato. E dopo poco la fine dell’anno, il 10 gennaio, ci sarà di nuovo la fornitura del gas da affrontare, visto che in quella data terminerà la sospensione del Tar della Lombardia a valere sui provvedimenti di Arera e Snam Rete Gas (quest’ultima avrebbe già voluto chiudere l’erogazione dall’8-9 novembre). 

La replica e l'antefatto


È evidente che il discorso per Acciaierie va impostato su due piani. L’immediato e la prospettiva, la replica a Mittal e il che fare nei prossimi mesi. “Manovre dilatorie”, “tattiche pretestuose”: così il socio pubblico Invitalia, che era pronto a fare finanziariamente, e pro quota, la sua parte in Acciaierie, definisce il contenuto della memoria di Mittal. In sostanza, scuse per non pagare e chiamarsi fuori. Non è una novità, d’altra parte. 
L’antefatto c’è ed è rilevante, visto che sulla fabbrica i rapporti tra gestore (prima Arcelor Mittal Italia, ora Acciaierie d’Italia) e proprietario (Ilva in amministrazione straordinaria) sono sempre stati difficili.

Pare che un po’ di tregua ci sia stata solo dopo marzo 2020, quando i commissari e l’ad Lucia Morselli chiusero la fase che nell’autunno 2019 aveva portato Mittal ad annunciare la risoluzione del contratto in risposta alla soppressione dello scudo penale da parte del Parlamento, e dopo maggio 2022, quando si decise di rinviare di due anni, e quindi entro maggio 2022 la vendita degli asset. Per il resto, in questi anni, i commissari di Ilva hanno sempre battagliato con chi aveva in mano gli impianti. Tra Tribunale (Milano) e arbitrati. I casi aperti sarebbero 5-6. A partire dai lavori di decontaminazione di cui Acciaierie rivendica il pagamento, che per Ilva in as c’è sempre stato - e d’altra parte anche Acciaierie, nel suo bilancio di sostenibilità 2022, dice di aver avuto 570 milioni da Ilva in as per le opere ambientali - all’infuori di alcuni presentati dopo la scadenza dei termini e peraltro senza riscontri e documenti. E ancora, piani di manutenzione non forniti (tant’è che la proprietà è dovuta ricorrere al Tribunale di Milano), quote di CO2, aree occupate a Genova dalle autorità pubbliche, indennizzo assicurativo di una nave, la Ursa Major, addetta al trasporto di prodotti finiti, coinvolta in un incidente. Per non sottovalutare il pagamento dei canoni trimestrali di fitto (25 milioni), che Acciaierie non sempre ha corrisposto, tant’è che sul penultimo è stato necessario incassare in parte la fideiussione mentre l’ultimo attende ancora d’essere pagato. Ora, se il Governo è sempre stato informato dai commissari di quello che faceva Mittal e della sua propensione al conflitto, non dovrebbe essere problematico rispondere alla memoria. 

Il futuro


Il difficile riguarda invece il che fare, come salvare l’azienda. Ieri i sindacati nazionali Fim, Fiom e Uilm, annunciando per la mattinata dell’11 dicembre, alle 11, una conferenza stampa davanti a Palazzo Chigi, hanno ribadito la loro linea: lo Stato batta un colpo. «Il Governo - dicono - non può essere ostaggio di ArcelorMittal. Riteniamo che sia giunto il tempo di cambiare la gestione di Acciaierie d’Italia e che il Governo, con un provvedimento d’urgenza, debba acquisire il controllo dell’azienda, rimuovere gli ostacoli, garantire produzione, sicurezza e ripresa degli investimenti, individuando partner e soluzioni industriali nuove». 
«Temo che siamo arrivati al punto che avevamo già preconizzato molti mesi fa e da qualche anno a questa parte a tutte le istituzioni coinvolte - dice a Telenorba il sindaco Rinaldo Melucci -. Dopo l’ultimo decreto di quest’estate, noi siamo stati anche esautorati dei poteri d’intervento in ambito sanitario ma restiamo preoccupati. Quella fabbrica così come è, non ha alcun senso, alcuna utilità per il territorio e credo che stia continuando a generare danni di tutti i tipi. Serviva, serve ancora, un accordo di programma che può realizzare soltanto il pubblico in un percorso medio-lungo, un decennio per riconvertire tecnologicamente la fabbrica, ridimensionarla anche. Manca questo presupposto coraggioso. E temo che quella fabbrica sia destinata a fermarsi. Se ci chiamano, noi siamo pronti a dare il nostro contributo». 


Reazioni anche dalla politica

 «È il momento - dichiara Francesco Boccia, capogruppo Pd al Senato - di parlare seriamente di un’eventuale nuova amministrazione straordinaria per tutelare l’occupazione, le aziende dell’indotto e far tornare il nostro Paese protagonista nel mercato siderurgico. Se il socio di maggioranza non ha intenzione di investire, perché tenerlo dentro Acciaierie d’Italia?». E Mario Turco, senatore vice presidente M5S, aggiunge: «La squadra di Giorgia Meloni si è ritenuta più furba di Arcelor Mittal, e una volta elargito il prestito da 680 milioni al colosso siderurgico, si è sentita sollevata da ogni responsabilità. Nel Governo non si sono resi conto che Mittal non aveva e non ha alcuna intenzione di investire ancora su Taranto e sull’Italia».

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