Bari travolta dalle inchieste: ora ci si guardi negli occhi e si riparta con coraggio

Bari travolta dalle inchieste: ora ci si guardi negli occhi e si riparta con coraggio
di Vincenzo MARUCCIO
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Martedì 16 Aprile 2024, 16:22 - Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 07:41

“Vieni a ballare in Puglia”: così cantava Caparezza quando era da poco diventata meta ambita. Puglia felix, trendy, alla moda. Più del Chianti, meglio di Ibiza, quasi Costa Azzurra. Un tormentone musicale ne decretava l’innegabile successo pur tra dubbi e zone grigie. E solo chi voleva far finta non capiva.

Il grande rischio è che le inchieste travolgano e si portino via tutto il resto: il buon lavoro finora fatto, quello ancora da fare e quello che andava rivisto perché mal funzionante. Il rischio è che tutto finisca nei tribunali, su una lavagna divisa in buoni e cattivi. Intendiamoci: ben venga il lavoro delle Procure per far luce sugli intrecci illegali tra politica e criminalità, ben vengano gli accertamenti per mettere a nudo abusi di potere perpetrati ai danni della comunità. Di una magistratura che scava e agisce c’è bisogno come il pane. C’è, però, un’altra faccia della medaglia: la battaglia per la trasparenza non basta se si dimentica il resto e se invocare patti per la legalità è tatticismo per non parlare d’altro.  

“Fare pulizia” non basta per guidare un piccolo Comune o un territorio più grande. Conta, innanzitutto, farsi qualche domanda. Siamo diventati la California (per tornare al libro di Franco Tatò da cui tutto cominciò) oppure no? La Primavera pugliese è stata un cambiamento che ha lasciato tracce o il suggestivo storytelling ha preso il sopravvento sulla realtà? L’esodo dei giovani ha subito un vero stop o il rallentamento del fenomeno è rimasto a macchia di leopardo? La crisi dei giganti industriali è stato compensata dai nuovi poli tecnologici con effetti occupazionali rilevanti? 
Domande che presuppongono una premessa: molta strada è stata fatta dai tempi di “scippolandia” se ora la Puglia è una terra che attrae come testimoniano i selfie di Madonna, le masserie invase dagli stranieri per le nozze da favola e l’assalto delle troupe cinematografiche. Il corollario è ovvio: nascondere i nodi irrisolti è un modo per eludere quelle stesse domande.
Il brusco risveglio giudiziario è un’occasione per guardarsi negli occhi prima di una ripartenza. Certo, ciascuno giocherà la sua partita in vista delle scadenze elettorali ed è fisiologica una battaglia senza esclusione di colpi. Ma l’opportunità è troppo importante per non coglierla e rinviarla. Per un doppio motivo: i destini che si incrociano su Bari e il ruolo della politica.
Il primo motivo riguarda il capoluogo pugliese, snodo cruciale per capire chi siamo e dove vogliamo andare. Inutile sbandierare verginità territoriali in nome di sub-identità: se è marcia Bari lo è tutta la Puglia, se Bari rivede la luce in fondo al tunnel la schiarita s’allarga a macchia d’olio. Perché dalla Regione passa tutto o quasi, perché Bari è motore dell’economia, perché a Bari ci lavorano e ci vivono molti più leccesi, brindisini e tarantini di quanti ne possiamo immaginare. Se vogliamo essere pugliesi non possiamo non dirci anche baresi. Al di là dei sani campanilismi che ci stanno se c’è di mezzo il calcio, ma che non sono ammessi quando si parla di sviluppo e lavoro.

Il caso Bari riguarda tutti, da Poggio Imperiale a Leuca, e trovarne la via d’uscita non può lasciare nessuno indifferente.

Le vicende giudiziarie, e siamo al secondo motivo, ci offrono l’opportunità per riflettere sulla politica trasformata in esercizio di potere e gestione del consenso. E per tornare a parlare di contenuti e obiettivi. Da quanto tempo non lo facciamo più? Da quanto tempo, tranne qualche eccezione, la politica si è piegata al clientelismo elettorale o all’arricchimento personale? Non è il caso di fissare date precise, ma c’è stato un tempo in cui la politica - e non solo di una sola parte - dibatteva se puntare o meno sulle energie alternative, se spingere sul turismo di massa o cercare strade alternative, se potenziare gli aeroporti o le ferrovie. C’è stato un tempo in cui un assessore regionale come Guglielmo Minervini (mai come oggi rimpianto) s’inventava i “Bollenti spiriti” per sostenere le idee imprenditoriali dei giovani altrimenti costretti a chiedere i soldi a papà o a fare le valigie: il senso di una visione che oggi ci manca, frastornati come siamo da conferenze stampa, foto ai tavoli, inaspettati selfie, sopralluoghi social e aneddoti da palco. 
C’è stato un tempo in cui la politica indicava un orizzonte (sognato e nello stesso tempo raggiungibile) e il resto della società provava a seguirne le tracce. La politica lanciava le sfide e il territorio le raccoglieva: imprenditori, società, cooperative, università, associazioni. E se qualcosa non funzionava, a ricordarcelo c’erano intellettuali tutt’altro che compiacenti - un Franco Cassano o un Alessandro Leogrande - e non c’era verso di tenersi la polvere nascosta sotto le copertine patinate.

Poco tempo fa, ma sembrano anni luce. Ora la politica va a ruota e non indica più la strada. Con un assessorato regionale alla Sanità dove si fa il possibile per tappare i buchi dell’assenza di una rotta perfino sulla scelta di costruire o meno nuovi ospedali. Senza una strategia di programmazione culturale che sappia valorizzare un caleidoscopio di risorse umane come poche altre regioni vantano. C’è chi tenta di resistere, ma finisce spesso sconfitto. I migliori talenti scappano e irrompono arrampicatori sociali nella totale mancanza di formazione politica che solo i nostalgici pensano di recuperare semplicemente resuscitando i partiti. Nel peggiore dei casi ci ritroviamo con una classe dirigente senza scrupoli, nel migliore dei casi con politici che in altre stagioni sarebbero stati chiamati giusto per farsi portare il caffè dal bar più vicino.
Trasformisti pronti a cambiare casacca o fedelissimi di questo o di quel leader e, stavolta, la differenza poco importa. In un caso e nell’altro senza codici morali. La Primavera che, neanche il tempo di godersi un’Estate, sfiorisce già in Autunno. Il potere per il potere prevale se c’è povertà di idee e il senso della res publica è un alibi strumentale. Quanto basta per alimentare - come il cane che si morde la coda - un’altra, ennesima inchiesta giudiziaria. Quanto basta per ingrossare le file di chi non va più a votare.

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