Perrone e Renna non rispondono. L'evaso raccoglieva soldi e armi per dar vita a un nuovo clan

Perrone e Renna non rispondono. L'evaso raccoglieva soldi e armi per dar vita a un nuovo clan
di Erasmo MARINAZZO
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Lunedì 11 Gennaio 2016, 09:11 - Ultimo aggiornamento: 11:27
Chi ha consegnato il kalashnikov armato con circa 100 proiettili al latitante Fabio Perrone? Come ha fatto in poco più di due mesi a raccogliere 4.600 euro? Sono domande che stanno incrociando i poliziotti della sezione criminalità organizzata della Squadra mobile con i colleghi della penitenziaria e i carabinieri, per meglio definire le ipotesi vagliate nell’inchiesta condotta con pubblici ministeri Guglielmo Cataldi e Stefania Mininni. Intanto, questa mattina sia Perrone che Renna si sono avvalsi della facoltà di non rispondere nel corso dell'udienza di convalida dell'arresto dinanzi al Gip.

Ma le indagini proseguono. Tutto ruota attorno alla rete di complicità che il 42enne di Trepuzzi potrebbe avere costruito durante la latitanza. E cioè chi si è reso disponibile a fare la colletta per il suo sostentamento e chi invece potrebbe aver partecipato alla creazione di un progetto criminale con l’uso di un’arma potente e minacciosa come un kalashnikov.

L’arma, dunque. Si tratta di un mitra la cui presenza nel Nord Salento era emersa sia nel corso di alcune indagini risalenti nel tempo e che riguardavano proprio Trepuzzi, che in una recente inchiesta su Squinzano. E sia il passato che il presente vedono protagonista gente vicina a Perrone. I fatti più recenti riguardano persone che, come Fabio Perrone, si portano dietro il marchio della Sacra corona unita. E che lo hanno armato. Il sospetto è si stessero adoperando per far nascere un nuovo clan sull’ennesimo asse Trepuzzi-Squinzano. Un asse solido e immarcescibile, come hanno dimostrato le inchieste degli ultimi due anni “Vortice-Deja vù” dei carabinieri del Nucleo investigativo.

Insomma, le indagini stanno cercando anche di stabilire se è vero che il latitante stesse cercando di costruire attorno alla sua figura di capo carismatico e pronto a tutto, un gruppo criminale di estrazione Scu. Nelle carte dell’inchiesta è stata fatta presente la possibilità di un assalto a un portavalori e di altre rapine con bottini comunque cospicui, per fare cassa e per garantire una latitanza senza problemi economici a Perrone.

Questi progetti criminali vengono presi in considerazione per spiegare perché Perrone abbia fatto la latitanza a casa. Perché se è vero che aveva con sé 4.600 euro in contanti, è vero anche che lontano da Trepuzzi il sua carisma criminale avrebbe potuto di affievolirsi. Con il rischio di vedere prosciugarsi il flusso di denaro raccolto per il suo sostentamento e di vedere sfumare la rinascita della Scu.

Si tratta di ipotesi di lavoro del gruppo di investigatori che si è dedicato alle ricerche di Perrone, di certo c’è invece la presenza di una rete di complicità che gli ha consentito sia di restare in libertà per 63 giorni che di raccogliere il denaro in contante. A bussare a denari sarebbe stato a volte lo stesso Perrone, qualcuno lo avrebbe visto in giro per Trepuzzi a notte fonda. Altre volte se ne sarebbero occupati i suoi esattori.

Perrone non dirà nulla a questo proposito. E non parlerà di altro. Con l’avvocato difensore Ladislao Massari hanno concordato che si avvarrà della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di questa mattina in carcere con il giudice per le indagini preliminari Stefano Sernia. Risponde del porto e della detenzione sia della pistola Beretta calibro 9 rapinata il 6 novembre scorso a uno dei due poliziotti penitenziari che del kalashnikov e dei relativi 100 proiettili, come pure di 12 cartucce calibro 12, in concorso con il proprietario della casa dove si nascondeva, Stefano Renna (difeso da Andrea Capone).