Vino, pezzetti e tressette: viaggio nella storia delle "putee". Le osterie storiche a Lecce e nel Salento

Vino, pezzetti e tressette: viaggio nella storia delle "putee". Le osterie storiche a Lecce e nel Salento
di Leda CESARI
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Domenica 22 Gennaio 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 05:07

Il panino con i pezzetti di carne di cavallo delle 10 del mattino a Lecce - non è un refuso: delle 10 del mattino - metteva d’accordo un po’ tutti, belli e brutti, alti e bassi, neri e rossi. Costo, 40 lire: gli anni Sessanta diventavano Settanta, le donne, finalmente emancipate, cominciavano a metterci piede anche loro - gesto altamente liberatorio, anzi di sfida all’ordine sociale ancora vigente. E quella colazione da uomini che non devono chiedere mai - altro che probiotici - annullava di botto anche le contrapposizioni ideologiche che pochi metri più in là, verso gli atenei vicini, trascendevano in discussioni di principio, insulti, e magari anche botte da orbi. 

Da Picione a Sciacquitti: viaggio nelle "putee de mieru" leccesi

Il manicaretto in questione veniva somministrato, neanche a dirlo, da “Picione”, illustre predecessore in via Principi di Savoia del mitico Angiulinu di cui ieri si sono celebrati i funerali, scrivendo la parola “fine” su una tradizione di “putei/e” leccesi che a quei tempi ringalluzzivano la città, non solo nel centro storico, dando immediata soddisfazione ad esigenze tanto elementari quanto impellenti: un boccone veloce, un bicchiere di vino, quattro chiacchiere con gli amici (cara movida, non hai inventato un bel nulla). 
L’elenco delle osterie è lungo: «Accanto a Santa Croce, per esempio, c’era “Paradiso”, dove a mezzogiorno erano pronte le pittule con il cavolfiore per l’aperitivo - sciorina Ruggero Vantaggiato, memoria storica della città - e dove poi sono arrivati prima una trattoria e poi un ristorante cinese».
Nelle vicinanze un’altra locanda di due stanze, alle 12 in punto, attendeva gli amanti del pranzo veloce con pasta e fagioli, sagne ‘ncannulate, fettine, trasformandosi poi la sera in “putea te vinu” e basta: come contorno al massimo un tressette. «Era il nucleo originario di quello che sarebbe diventato “Guido & figli”», continua Vantaggiato. Sempre in zona, un po’ più a nord - e precedentemente situato nei pressi della chiesa di Fulgenzio - distribuiva momenti di piacere a buon mercato “Sciacquitti”, così soprannominato perché lavava botti: il fatto di essere separato dall’Istituto Calasso solo da un attraversamento millimetrico, «e da una rete che avevamo bucato - racconta ancora Vantaggiato, significava pezzetti e gassose à gogo per gli studenti. Ovviamente “alla forchetta”, ovvero in piedi, o, appunto, cum panis. 
Come accadeva non solo a Lecce, perché anche in provincia ogni paese aveva le sue, con identica formula: luogo esclusivamente maschile - «se una ragazza doveva andare a chiamare suo padre doveva rimanere sulla porta», nebbia in Val padana causa sigarette, rigorosamente senza filtro, vino sfuso a gradazione alcolica sicuramente illegale (altro che sentori e note di), smoccolamenti liberi, piatti basic, dalla trippa alle polpette.

Polpette: parola magica che dava motivo d’esistenza alla “Purpettara”, in viale Lo Re, già negli anni Cinquanta: meta fissa degli ambulanti del mercato coperto a pochi metri.

Le più note erano nel centro storico, ma - a raggiera - molte friggevano baccalà a pranzo e Negroamaro di sera in via Leuca, viale Taranto, alla chiesa dell’Idria. Scansafatiche di varie risme, operai, signorotti e intellettuali: anche Vittorio Bodini amava le “putei/e” - il plurale è politicamente corretto - e ne frequentava in particolare una in via delle Bombarde, dove faceva provare in anteprima l’ebbrezza della sua poesia a una ragazza di cui era infatuato. E poi “Totu” vicino piazzetta Falconieri, dove - sempre alla forchetta - si potevano prima approcciare dalle vetrinette in legno, poi anche assaggiare peperoni rossi e verdi - ovviamente fritti - gli immancabili pezzetti di cavallo - attinti dalla quatara - e le indispensabili uova sode. Indispensabili perché - spiega il cuoco e sacerdote della tradizione culinaria leccese Carlo Sozzo, e non chiamatelo chef perché vi fa gli occhiacci - «non solo incentivavano alla bevuta, ma soprattutto facevano da spugna quando il vino scendeva». 

Pane e sugo: il menu low cost 

Un must, insomma, anche se poi ogni putea aveva la sua specializzazione: “Frangiscu”, per esempio, che si trovava proprio dove oggi ci sono i locali della movida ed era uno dei più famosi, «era quello della fettina di cavallo e del fegato arrosto», continua Sozzo. Ma erano anche ope e sarde fritte, muso di maiale lesso con olio e limone, alibi per poi consegnarsi mani e piedi al vino, magari dopo aver giocato a “Padrunu”: chi vinceva aveva diritto assoluto di far ubriacare tutti gli altri. Magari col Moscato. I progenitori di pub e ristoranti di Lecce e del Salento, insomma, erano questo: semplicità come bandiera, gusto a due lire - «se avevi pochi soldi c’era sempre il pane col sugo e basta - e accoglienza spartana. Una volta venne con noi da “Totu” la moglie di un amico, tutta impellicciata», racconta ancora Sozzo, «che si scandalizzò perché sulla tavola ci sistemarono un foglio di carta. “E la tovaglia?”», disse allarmata. Risposta: «Sì, e mo vuoi pure le posate?».
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