La sfida sulla ricerca alle assise di Ateneo

di Guglielmo FORGES DAVANZATI
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Giovedì 10 Dicembre 2015, 16:41
L’Italia è ultima, fra i Paesi Ocse, per percentuale di laureati, superata nell’ultimo anno dalla Turchia. Lo certifica l’ultimo Rapporto Education at glance, ed è un dato non sorprendente per chi è a conoscenza del processo di demolizione dell’Università italiana portata avanti dai Governi che si sono succeduti almeno negli ultimi cinque anni.

Da quando il Ministro Tremonti dichiarò che “con la cultura non si mangia” all’accesa campagna mediatica che ha dipinto l’Università italiana come luogo di baronie e nepotismi, alla massiccia riduzione dei finanziamenti (e, dunque, all’aumento delle tasse di iscrizione) si è delineato un percorso che non poteva non avere questo esito.

La fondamentale motivazione utilizzata per decurtare fondi alle Università riguarda il fatto che questi risparmi sono necessari per ragioni di bilancio. Si tratta di una tesi palesemente falsificata dal fatto che, nell’intero settore del pubblico impiego, le maggiori decurtazioni di fondi sono state subìte proprio da scuole e università. Si è, dunque, in presenza di una scelta di ordine puramente politico, non dettata da ragioni “tecniche”. Scelta di ordine politico che ha a che vedere con il modello di specializzazione produttiva dell’economia italiana. E’ del tutto evidente, infatti, che un sistema produttivo prevalentemente composto da imprese di piccole dimensioni, poco innovative, collocate in settori “maturi” (agroalimentare, Made in Italy) non ha bisogno né di ricerca (né di base e neppure di ricerca applicata) né di forza-lavoro altamente qualificata.
Nel Mezzogiorno la situazione è ancora peggiore.

E’ sufficiente un dato per fotografarla: il 25,7% del totale della “quota premiale” (la quota del finanziamento ordinario quantificata sulla base della produttività degli Atenei), nel 2013, è andato agli atenei meridionali contro il 36,8% delle Università settentrionali. Come registrato dalla Svimez (Rapporto 2014), al sistema universitario meridionale sono stati sottratti 160 milioni di euro sottratti dal 2011. Ciò fondamentalmente a ragione del numero eccessivo di studenti fuori corso e di laureati disoccupati. Al di là del fatto che non dovrebbe essere compito dell’Università modificare il contesto socio-economico nel quale opera, il disegno appare chiaro (anche perché esplicitato recentemente dal Presidente del Consiglio): diversificare il sistema universitario italiano in sedi teaching e sedi research, dove nelle seconde si fa didattica ricerca e nelle prime esclusivamente didattica (con soli corsi di laurea triennali – poco più di un Liceo). E non è un mistero che i poli di “eccellenza” che si intendono istituire (o dichiarare tali) sono al Nord.

Ben venga, in questo scenario, la Conferenza di Ateneo convocata dal Rettore per l’11 dicembre. Si tratta di una giornata dedicata a un’approfondita discussione, fra docenti e rappresentanti delle Istituzioni, su come invertire questa tendenza, quantomeno sul piano locale, e, in particolare, su come rendere soprattutto l’attività di ricerca dell’Università del Salento più produttiva. Nella nota del Rettore si legge che l’Università del Salento è ben posizionata per quanto attiene alla Didattica e alle citazioni degli articoli scritti dai ricercatori che vi afferiscono, mentre ha punti di debolezza nell’internazionalizzazione, nei rapporti con il territorio e nella ricerca. La domanda che ci si pone è dunque: come migliorare la qualità della ricerca scientifica nel nostro Ateneo? E’ necessario preliminarmente chiarire che, se le politiche per/contro l’Università, continueranno in questa direzione, ragionare sulla produttività della ricerca in un singolo Ateneo diventerà un esercizio del tutto sterile e che, dunque, ciò che preliminarmente sarebbe auspicabile fare è una battaglia politica per ricevere dal Ministero un’entità di finanziamenti almeno pari a quella precedente ai tagli Tremonti-Gelmini.

La risposta più immediata che verrebbe da dare è reclutare giovani preparati e motivati, considerando il fatto che, in molti settori, la maggiore produttività scientifica si registra nella fascia d’età compresa fra i 30 e i 40 anni. Ma, a legislazione vigente, questa misura è di fatto inattuabile, almeno non lo è in misura significativa.
L’accesso alla carriera universitaria è, oggi, in Italia, non solo estremamente difficile (per non dire quasi impossibile) ma anche sempre più legata a lunghi periodi di precariato. Ciò per il combinato di due fattori che attengono alla c.d. riforma Gelmini e al sottofinanziamento della ricerca. La riforma Gelmini ha sostituito al ruolo del ricercatore a tempo indeterminato (ruolo che va ad esaurimento) quello del ricercatore a tempo determinato. Al tempo stesso, si sono ridotti in modo massiccio i finanziamenti alle Università e si è legata la possibilità di reclutamento alla disponibilità di “punti organico” (facoltà assunzionali).

In queste circostanze, si disincentiva l’assunzione di giovani ricercatori dal momento che questa costerebbe più dell’avanzamento di carriera dei ricercatori a tempo indeterminato. In un contesto di continua riduzione di fondi, si può comprendere che, anche in presenza di giovani molto preparati, si tenda a preferire, risparmiando, l’uso di risorse umane già disponibili. Occorre dunque valorizzare prevalentemente i ricercatori già presenti, con misure che, dato il sottofinanziamento, sono necessariamente minimali. Le proposte potrebbero essere tante: ridurre l’ipertrofia normativa, che sottrae tempo alla ricerca, nei limiti di quanto è possibile fare in un singolo Ateneo, incentivare l’internazionalizzazione, anche chiamando a Lecce professori ‘di chiara fama’ in grado di rendere l’Università del Salento più attrattiva e di organizzare gruppi di lavoro intorno alle loro linee di ricerca.
Ma il problema resta politico e attiene ai rapporti fra i Rettori e il Ministero.

Ed è anche culturale, nel senso che il docente universitario è sempre più percepito come un privilegiato nullafacente. Si tratta di una percezione distorta. Oltre alla didattica alla ricerca alla c.d. terza missione (ovvero la cura dei rapporti con il territorio), molta parte del tempo di lavoro di un professore universitario, oggi, è dedicata alla compilazione di moduli il cui contenuto è spesso ai limiti del surreale. Lo stipendio medio di un docente con quindici anni di servizio si aggira intorno ai 2500 euro mensili ed è bloccato da cinque anni. I fondi pubblici per la ricerca sono pressoché azzerati, ed è estremamente difficile reperirli all’esterno, soprattutto in aree, come il Salento, nelle quali non esiste un forte tessuto imprenditoriale. È banale affermare che la ricerca scientifica è l’attività che maggiormente contribuisce alla crescita economica e civile del Paese, e che non merita di essere mortificata da campagne di stampa denigratorie e di essere sottofinanziata. Ma al Ministero la pensano diversamente.
Guglielmo Forges Davanzati