Il commento/ Il senso smarrito dello Stato

di Renato MORO
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Domenica 10 Gennaio 2016, 11:49
Ora che «Triglietta è fritto», per citare il commento liberatorio di chi gli ha dato la caccia per 63 giorni, l’errore che si rischia di commettere è quello di impacchettare il caso e di archiviarlo consegnandolo alle aule del Tribunale per i reati di cui l’ergastolano si è macchiato fuggendo dall’ospedale. Invece questa storia, proprio ora che è sotto l’attenzione di tutti, deve farci riflettere. Quasi deve costringerci ad aprire un dibattito attorno ad un aspetto che il modo in cui si sono svolti i fatti e le circostanze raccontate da investigatori e magistrati mettono a nudo: la propensione all’omertà, la facilità con cui si finisce per diventare complici o conniventi o, nella migliore delle ipotesi, l’assuefazione a convivere col crimine organizzato fin quasi ad accettarlo come fosse una variabile indesiderata ma comunque fisiologica.

Il Salento non è terra di mafia e questo è un assunto che potremmo ormai considerare scontato. Non è terra di mafia nel senso che la società civile non è permeata in tutti o nei suoi principali meandri dai tentacoli della criminalità organizzata.

Abbiamo saputo rispondere quando la Scu ha fatto sentire i suoi primi vagiti. Ha risposto la magistratura, hanno risposto le istituzioni (basti ricordare i prefetti-poliziotti che sono passati da via XXV Luglio) e hanno risposto i cittadini. Ma questo non basta. E continuerà a non bastare perché la resistenza alla mafia può avere un inizio ma non una fine e dev’essere continuamente alimentata per scongiurare i cali di tensione. Per evitare, il punto è questo, che abbassando la guardia si possa lasciare il campo libero ai rigurgiti e all’aggressione dei clan.

Di recente non sono mancate le occasioni che hanno generato qualche dubbio riguardo la tenuta del territorio. A Parabita l’ultima operazione antimafia ha messo a nudo un sistema di affari che, stando ai sospetti della Procura, avrebbe visto protagonisti un presunto boss del posto e il vicesindaco, entrambi arrestati. Un po’ quello che in precedenza era venuto fuori a Cellino, dove i risultati di un’inchiesta della Procura hanno indotto il ministro dell’Interno a sciogliere il Consiglio comunale. Pochi giorni fa, inoltre, ha fatto discutere l’ordinanza con la quale il gip di Lecce ha negato la libertà ad uno dei ragazzi che a Campi Salentina hanno aggredito e deriso un disabile loro coetaneo. Ha fatto discutere la motivazione con cui si accompagna il diniego, che basa la decisione del giudice sul fatto che essendo Campi «città ad alta densità mafiosa» è bene non liquidare l’episodio come un semplice atto di bullismo. In altre parole: se aggredisci e insulti un disabile in un ambiente mafioso non sei soltanto un bullo, ma qualcosa di più. Considerazione opinabile, tanto che ne è scaturita una lite a distanza tra sindaco e giudici, ma comunque fatta da un magistrato che nel mettere nero su bianco un tale pensiero crediamo non si sia basato soltanto sul sentito dire.

L’ultima occasione per riflettere ci è stata data ieri dal commento fatto dagli investigatori durante la conferenza stampa seguita all’arresto di Perrone. L’evaso era a “casa sua”, nella “sua Trepuzzi” che ha raggiunto subito dopo la fuga dal Fazzi e dove ha parcheggiato tranquillamente l’auto sottratta ad una donna. Nella “sua Trepuzzi” ha potuto trovare solidarietà e ospitalità, forse anche assistenza medica visto che è rimasto ferito nel conflitto a fuoco con l’agente che ha tentato di bloccarne la fuga. «Ha goduto di complicità insospettabili», ha detto la dirigente della Squadra Mobile. Persone «insospettabili» che hanno subito quella presenza ingombrante scegliendo quantomeno di tacere, se non aiutando l’evaso proteggendolo durante i suoi spostamenti. E infine nella “sua Trepuzzi”, sempre per citare gli investigatori, Perrone «è considerato un idolo».

È inammissibile che in un contesto civile possa accadere ciò. Inammissibile, ma comunque possibile. Ed è per questo che occorre aprire, o riaprire, una riflessione. È evidente che dietro fenomeni del genere c’è un abbassamento del livello di guardia, l’abitudine a convivere con la criminalità preferendo ignorare piuttosto che mettersi di traverso, l’assuefazione ad un sistema di illegalità diffusa che nei suoi confini può contenere di tutto: dallo sberleffo al disabile al favoreggiamento della latitanza di un assassino. Bisogna reagire. E bisogna cominciare da una (ri)affermazione della legalità e dei suoi valori, da una ritrovata fiducia nello Stato. Perché anche davanti al più pericoloso degli ergastolani, anche davanti al più oliato dei Kalashnikov la legalità vince. Deve vincere.