Green deal, Bruxelles cambia passo. Dimitar Lilkov: «Servirebbero almeno mille miliardi per la transizione»

Il ricercatore del Wilfried Manfred Centre for European Studies : "costi e burocrazia sottostimati"

Green deal, Bruxelles cambia passo. Dimitar Lilkov: «Servirebbero almeno mille miliardi per la transizione»
di Gabriele Rosana
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Mercoledì 6 Marzo 2024, 11:00 - Ultimo aggiornamento: 7 Marzo, 17:11

Dimitar Lilkov, ricercatore esperto di energia e clima del “Wilfried Martens Centre for European Studies” di Bruxelles, think tank affiliato al Partito popolare europeo (Ppe), come sta il Green Deal cinque anni dopo il suo lancio?

«Nei guai, e per una precisa ragione: nel 2019, quando fu adottato in tutta velocità, ci trovavamo in un diverso contesto economico e securitario.

In breve, il Green Deal era stato creato per tempi prosperi e di pace. Cinque anni dopo, l’Eurozona è in una situazione difficile, sull’orlo della recessione, ci troviamo a fare i conti con una minaccia diretta alla nostra sicurezza (l’invasione russa dell’Ucraina e i vari focolai di instabilità internazionale, ndr) e la stessa ambizione del Green Deal di essere una strategia per la crescita dell’Ue e delle sue imprese appare spuntata, con i benefici della “green economy” che vanno a profitto soprattutto di Cina e Stati Uniti».

La Commissione Ue ha sottostimato i costi della transizione?

«Sì. All’inizio si parlava di circa 200 miliardi di euro aggiuntivi ogni anno necessari a finanziarla, mentre oggi ci troviamo davanti a documenti che ipotizzano circa mille miliardi, in pratica l’equivalente del budget settennale dell’Ue che andrebbe speso in appena 12 mesi per la sola transizione verde. Ma ha anche sottostimato tutta la burocrazia necessaria, ad esempio, a ottenere i permessi per le rinnovabili da parte delle autorità nazionali e le nostre stesse capacità infrastrutturali. È stato, in un certo senso, folle pensare di poter raddoppiare la presenza di rinnovabili nel mix energetico Ue nei prossimi sei anni, quando ce ne sono voluti circa 30 per arrivare alla situazione attuale».

Dopo le elezioni europee di giugno si aprirà una nuova stagione politica. Pensa che la strategia verde è in pericolo?

«A parte qualche forza dell’estrema destra, nessuno dirà che dobbiamo abbandonare il Green Deal, ma di certo occorre rimetterlo a posto. Le ambizioni sono state eccessivamente alte, e siamo stati fin troppo ottimisti sui tempi della transizione, che sono maggiori di quelli immaginati dal Green Deal. Prendiamo i target di riduzione della CO2 al 2030 previsti dal piano “Fit for 55” (cioè meno 55% di emissioni rispetto ai valori del 1990): possiamo dire con sufficiente certezza scientifica che sono irrealistici e impossibili da raggiungere nel breve termine».

Come vede il futuro del Green Deal?

«In un momento in cui la produzione di alluminio, acciaio, vetro, fertilizzanti in Europa è in calo, il Green Deal deve prestare più attenzione alle industrie e aiutarle a innovare. L’approccio americano, in questo, si è dimostrato di successo: negli ultimi anni, gli Usa hanno investito in alcuni settori chiave, nel tentativo di specializzarsi, a cominciare dalle auto elettriche. Noi in Europa vogliamo, invece, fare un po’ di tutto, ma dovremmo semmai superare le divisioni nazionali, operare delle scelte in materia di tecnologie critiche e optare per sovvenzionare quelle industrie selezionate in cui abbiamo un vantaggio competitivo, ad esempio gli elettrolizzatori per produrre idrogeno o le turbine eoliche».

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