Il tifo e il sangue: Desiati e la tragedia dell'Heysel

Il tifo e il sangue: Desiati e la tragedia dell'Heysel
di Claudia PRESICCE
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Martedì 12 Maggio 2015, 20:42
Sono passati trent’anni esatti da quel 29 maggio 1985. Trent’anni dalla strage al vecchio stadio Heysel di Bruxelles dove si disputò la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. Una carica degli hooligans verso il settore Z dove si trovavano alcuni tifosi juventini (quelli organizzati erano dall’altra parte dello stadio) e il successivo crollo di un muro, uccisero, calpestate o schiacciate, 39 persone (33 italiani). Oltre seicento furono feriti.



Mancava ancora un’ora alla partita: la diretta Rai si aprì con un Pizzul sotto tono, la finale venne giocata ugualmente. Si disse, per permettere alla polizia belga di riorganizzarsi. “La notte dell’innocenza. Heysel 1985, memorie di una tragedia” (Rizzoli) è l’ultimo libro di Mario Desiati, che, tra ricordi personali, narrativa e cronaca, ridà voce a questa storia dimenticata riportandola nel presente.



Desiati, raccontare l’Heysel: come è approdato a questo lavoro?

«È un certo tipo di narrativa che mi è sempre piaciuto leggere, e che per “Nuovi Argomenti” ho spesso adottato, quella che racconta delle storie vere con piglio narrativo. Questo è un evento storico che mi ha molto colpito e che nello stesso tempo è emblematico per raccontare la contemporaneità. Intorno al calcio si muovono altre dinamiche, politiche, familiari, storiche. Anche se può essere recepito come superficiale, in realtà il calcio come fenomeno umano non va sottovalutato. Ho provato a raccontarlo attraverso uno dei suoi eventi più tragici che coincide con una delle prime partite che ho seguito nella mia vita. Ho messo insieme tutto questo per creare un lavoro sulla storia e sulla contemporaneità».



Una storia di sangue di trentanove morti, ma la partita si giocò lo stesso. Qual è la sua lettura dell’evento?

«La prima lettura è certamente quella della ferita insanabile, ma poi uno si chiede subito perché il calcio è andato avanti. Essendo un fenomeno umano, come gli altri, prosegue. Come racconta certa letteratura tedesca della ripresa della normalità dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, dopo un evento tragico la vita va avanti. Fu quasi come un incidente aereo allora, nel 1985, ma se oggi uno stadio di una finale di Coppa dei campioni non potrebbe mai essere così poco sicuro come quello, invece quel tipo di violenza che si scatena in uno stadio è purtroppo ancora di grande attualità».



Nel libro riprende il dibattito del tempo e c’è una frase terribile di Platinì: “quando cade l’acrobata entrano i clown”.

«La disse a Marguerite Duras perchè l’Heysel colpì l’immaginario di quel periodo storico di molti scrittori: lei intervistò Platinì. Poi racconto il dibattito tra Malerba, Calvino e Soldati sulla liceità di continuare a giocare quella partita, se considerare o meno quel trofeo. Mi interessava però ricordare la memoria di queste persone che spesso purtroppo sono ancora oggetto degli strali negli stadi. L’ultima volta è stato un anno fa: si inneggiava a “meno trentanove”, ma molti non sanno neanche chi sono. Ho messo l’elenco dei nomi, ma al di là di questo ho unito il racconto di una storia di morte attraverso la visione di Ugo Riccarelli, la più bella su questa storia a mio avviso, e attraverso le immagini che si sono viste in diretta. Addirittura in una diretta francese si videro spirare alcune persone…».



Quando scrive di avere l’impressione di un mondo che non solidarizza più con le vittime e non condanna i carnefici sembra sottolineare una sorta di costume in Italia, o no?

«Di fronte all’oltraggio di questa memoria, o di quella di Superga di cui ricorre l’anniversario in questi giorni, ho l’impressione che scatti subito la polemica e si tralasci la memoria delle vittime e che si passi troppo presto alla tabellina mentale, se togliere quella coppa, e non si parli di come migliorare le cose. Non si parla di migliorare la sicurezza negli stadi o di cosa fare per le famiglie delle vittime per esempio. Le cose sono molto cambiate, ma non basta».



Per una sorta di traslazione da lei evocata dal calcio alla società sembra che questo malcostume alberghi anche in altri ambiti. Mi riferisco a certe frasi che si leggono sui social network in cui si inneggia a Hitler, ecc., come se fosse cosa lecita, normale…

«I social network danno visibilità a fenomeni sempre esistiti. La bestialità di scritte violente viene fuori ogni giorno sul web e innesca polemiche. Recentemente un signore che ha ucciso la moglie ha scritto “finalmente l’ho fatta fuori” e tanti hanno messo “mi piace”. Questo purtroppo credo sia sempre esistito, ma non aveva la stessa visibilità, restava nel bar di quartiere. Invece lo stadio era il primo social network, lì le cose si amplificavano e avevano grande risonanza».



Quanto la letteratura può lanciare messaggi importanti oggi? E soprattutto arrivano?

«La narrativa è sempre stata conseguenza del suo tempo e una certa letteratura interviene nella realtà e cambia le cose, questo l’ho sempre creduto. Ma chi scrive un libro non deve mettersi in testa di cambiare il mondo, altrimenti è un predicatore non uno scrittore. Deve magari cercare di raccontare il mondo che vorrebbe trasmettere agli altri. L’arte quando è vera alla fine lo cambia lo stesso il mondo».



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