L'allarme di Bernabè: «L'ex Ilva si sta spegnendo»

L'allarme di Bernabè: «L'ex Ilva si sta spegnendo»
di Domenico PALMIOTTI
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Mercoledì 18 Ottobre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 06:39

C’è un termine che Franco Bernabè, presidente della holding Acciaierie d’Italia, usa nell’audizione di ieri pomeriggio sull’ex Ilva alla commissione Attività produttive della Camera, ed è consunzione. Un termine che ben descrive le sorti di un’azienda giunta ormai al capolinea o quasi. E lancia l'allarme alla politica. 

L'allarme

«La società si spegne per consunzione» dichiara il manager davanti ai deputati. Ne consegue quindi l’invito a fare presto, perché, ammonisce, «non abbiamo più tempo». E ricordando di aver lanciato nei mesi più appelli a trovare un accordo tra gli azionisti di AdI (il privato Mittal col 62 per cento e la pubblica Invitalia col 38), Bernabè avverte: «Di più non posso fare, per questo ho messo a disposizione il mio mandato». Ma cosa fare allora? «Credo che bene faccia il ministro Fitto ad avere finalmente visibilità sulle intenzioni di lungo periodo del socio Arcelor Mittal - rileva Bernabè sulla trattativa in corso -. Però, al di la di chi sarà a comandare e ad avere la maggioranza, la società ha problemi urgentissimi. Ha problemi domani mattina, non ha problemi che si risolvono a sei, nove, dodici mesi.

Ha un problema che va affrontato immediatamente e va affrontato destinando alla società i soldi che sono necessari a sopravvivere. E di soldi la società ne ha bisogno». 


Ma non ha già ottenuto dallo Stato 680 milioni? «La società ha speso un miliardo e 400 milioni solo per pagare l’energia - prosegue Bernabè in relazione al finanziamento erogato mesi addietro da Invitalia -. I 680 milioni sono una briciola del fabbisogno. La società con quei 680 milioni ha potuto mantenersi in vita. Senza, avrebbe chiuso l’anno scorso perché non c’erano le condizioni per pagare le bollette del gas, che ammontavano a molte centinaia di milioni. Una società di quel genere ha bisogno di una flessibilità finanziaria di 2-2,5 miliardi, operatori di questa dimensione lavorano con affidamenti per 3 miliardi» mentre AdI ha avuto «finanziamenti per 100-200 milioni». 

Il problma gas

Ma la crisi finanziaria nasce ben prima dell’arrivo dei 680 milioni. Nasce dal deconsolidamento di AdI, da parte di Mittal, dal perimetro della multinazionale e si aggrava con la quasi impossibilità a farsi dare soldi dalle banche e con i costi elevati dell’energia. Ora l’urgenza è la fornitura di gas che serve a far marciare gli impianti. «Oggi - rivela Bernabé - il gas sta di nuovo a 50 euro a megawattora e il servizio di fornitura in default di cui AdI beneficia in questo periodo, e che deriva dal fatto che per morosità è stato sospeso il contratto, è destinato a concludersi a brevissimo». Sarà sostituito «da una fornitura commerciale», che la situazione finanziaria dell’azienda, unita all’innalzamento del costo del gas per il conflitto medio orientale, rende però «estremamente difficile». AdI, infatti, dovrebbe versare un centinaio di milioni di anticipazione al fornitore, «perché nessuno si fida di una società che non ha soldi» e quindi serve «un pagamento anticipato, ma questo la società non è in grado di farlo». E se viene meno il gas, avverte, «c’è il rischio imminente di un’interruzione». 
Il problema è che la società, che fattura 3 miliardi ed ha un fabbisogno di circolante minimo di circa 2 miliardi, «e forse anche di più», sulle risorse «ha dovuto provvedere autonomamente. Lavora senza finanziamento bancario. Lavora - sostiene Bernabé - con la cassa generata dal ciclo di produzione. Ma se gestisce produzione e finanziamento di circolante con un giro di cassa autonomo, ogni volta questo giro perde un pezzo perché la cassa va agli investimenti, ad altri fabbisogni, e non può essere utilizzata per comprare le materie prime». Di conseguenza «ogni giro di produzione riduce la produzione» e pure l’indotto viene penalizzato. Senza trascurare che la «crisi energetica ha ridotto la generazione di cassa» e «impedito l’emissione degli ordini per la realizzazione dei nuovi impianti».
Inoltre, anche l’impianto del preridotto per i nuovi forni elettrici messo in cantiere Dri d’Italia sta soffrendo, venuta meno la certezza del miliardo del Pnrr. Tant’è che Dri d’Italia ha affidato l’ordine per la progettazione dell’impianto ma fermato l’acquisto dei materiali da costruzione. Adesso c’è il negoziato con Mittal che Fitto sta intessendo. «Non ho elementi per poter dire se avrà successo o meno, ma è un tentativo che, secondo me, andava fatto e bene ha fatto il ministro Fitto a farlo», osserva il presidente di AdI. 
Intanto, il recente dl “Salva Infrazioni” consente l’acquisto degli asset industriali sequestrati. Questo dovrebbe far pensare a Mittal che «c’è una volontà precisa del Governo di avviare un negoziato serio per vedere se ci sono le condizioni per tornare in un ruolo importante». Perchè, aggiunge, «una società di questa complessità ha bisogno di un azionista che sia veramente presente in continuazione, che difenda la società, che la sostenga finanziariamente». 
Lo stabilimento di Taranto ha avuto lavori per 1,8 miliardi di ambientalizzazione, quindi «se ripreso e rilanciato, può ridurre l’impatto ambientale che comunque la produzione di acciaio ha e credo che questa sia un’altra considerazione che Mittal fa nel valutare la sua prospettiva» sostiene Bernabè.

Comunità da tutelare

Infine, c’è da parte di Bernabé un riconoscimento a Taranto e alla Puglia. «Credo che un merito vada dato alla comunità di Taranto che ha sofferto enormemente per i problemi derivanti dall’insediamento dello stabilimento - afferma -. La comunità di Taranto, il sindaco, la Regione Puglia, hanno accettato l’idea che il piano di decarbonizzazione si sviluppasse su un arco di dieci anni, il minimo richiesto per un progetto così ambizioso. Va dato atto alla comunità locale di aver accettato questo processo e a maggior ragione credo che non possa essere delusa. Non si può dire abbiamo scherzato».

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