Ilva, parole aspre contro gli ex proprietari nella motivazione della sentenza: «Volevano contenere gli investimenti ambientali»

Ilva, parole aspre contro gli ex proprietari nella motivazione della sentenza: «Volevano contenere gli investimenti ambientali»
di Mario DILIBERTO
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Giovedì 1 Dicembre 2022, 09:04 - Ultimo aggiornamento: 09:05

«La finalità perseguita nella gestione dello stabilimento siderurgico era sempre quella di mantenere i livelli produttivi e contenere i costi. Più correttamente, la finalità dei Riva era il conseguimento del profitto, il profitto come interesse supremo». Questo il principio che, secondo i giudici della Corte d'Assise, ha guidato la gestione dell'Ilva di Taranto nei lunghi anni in cui il colosso siderurgico è stato nelle mani del gruppo Riva. Ed è per questo che sarebbero stati contenuti anche gli investimenti per abbattere l'impatto ambientale del siderurgico.

Una convinzione che la Corte ha maturato durante le 330 udienze che hanno caratterizzato il processo Ambiente svenduto.

E che è stata riproposta in questi termini durissimi nella motivazione della sentenza depositata lunedì sera dal presidente Stefania D'Errico e dal giudice a latere Fulvia Misserini.

Un girone dantesco

Verdetto che ha condannato gli ex proprietari dell'Ilva per il disastro ambientale dei quartieri di Taranto, descritti dagli stessi giudici come un «girone dantesco» a causa delle emissioni «dell'impianto siderurgico, dal quale partono sostanze nocive ed inquinanti e che si distribuiscono a raggiera» sulle zone circostanti. In particolare i magistrati si dilungano sul «profitto come interesse supremo» nella gestione della fabbrica nel capitolo dedicato alla imputazione di associazione per delinquere.

Accusa contestata a dieci dei ventisei imputati condannati con la sentenza decretata il 31 maggio dello scorso anno. In prima battuta ai fratelli Fabio e Nicola Riva, all'ex direttore della grande fabbrica Luigi Capogrosso e all'ex responsabile dei rapporti istituzionali Girolamo Archinà. Non a caso gli imputati per i quali sono state decretate le condanne più elevate, da vent'anni in su. La Corte ha puntato i riflettori nella motivazione di oltre 3700 pagine sul cosiddetto metodo Ilva, spiegando come lo stabilimento, sin dal momento della sua acquisizione da parte del gruppo industriale, sia stato guidato con regole proprie. Poggiate sul ruolo di fondamentale importanza ricoperto dai subalterni. I fiduciari per dettare legge nei reparti in modo tale da privilegiare i ricavi e la produzione, limando i costi anche sotto il profilo degli interventi per abbattere l'impatto ambientale del colosso dell'acciaio, e l'onnipresente Archinà.

Quest'ultimo è descritto come «reale perno intorno al quale tutta l'associazione ruota», grazie al suo mandato di difendere le ragioni della fabbrica all'esterno, curando i rapporti anche con i vertici della politica locale e regionale. «L'obiettivo - spiega la Corte - era ottenere il massimo profitto contenendo al minimo i costi e quindi gli investimenti. Tra i quali rientrano anche quelli a carattere ambientale che erano ben noti alla proprietà e al management sin dall'acquisizione dello stabilimento». Una politica industriale che viene indicata dai giudici come il fil rouge di una gestione bollata e condannata dalla Corte d'Assise come illegale.

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